Estate, tempo di caldo record. E puntualmente, quando le temperature salgono, i media italiani si scaldano. Ma lo fanno spesso senza spiegare perché succede. Secondo un’analisi commissionata da Greenpeace all’Osservatorio di Pavia, più di tre quarti delle notizie su giornali e telegiornali dedicate alla prima ondata di calore di questa estate non citano nemmeno la crisi climatica come causa o contesto del fenomeno. Il risultato è una narrazione a intermittenza, che si accende nei giorni di allerta meteo per poi scomparire al primo temporale, lasciando il pubblico con l’impressione che tutto sia passeggero, episodico, inevitabile. E senza strumenti per capire cosa succede davvero.
Nelle edizioni serali dei telegiornali generalisti (Rai, Mediaset e La7), solo il 23% dei servizi andati in onda tra fine giugno e inizio luglio ha citato la crisi climatica. E tra questi, appena un terzo ha messo in chiaro il legame con le emissioni di gas serra e le responsabilità umane. Per il resto solo indicazioni pratiche. Bere molta acqua, restare all’ombra, evitare le ore più calde. Il 63% dei servizi proponeva solo rimedi per adattarsi, e solo il 7% parlava di cosa si dovrebbe fare per fermare l’aggravarsi del problema, a cominciare dalla riduzione delle emissioni e dalla transizione alle rinnovabili. Quanto alle voci ascoltate, predominano quelle dei cittadini comuni, intervistati per raccontare quanto si soffre il caldo o come ci si arrangia. Climatologi, fisici, medici, meteorologi? Appena nel 16% dei casi.
Giornali reticenti
I principali quotidiani italiani – Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, Il Sole 24 Ore, La Stampa – non fanno molto meglio, afferma l’Osservatorio di Pavia. Il 67% degli articoli analizzati ignora del tutto il tema del cambiamento climatico. E tra quelli che lo citano, solo la metà approfondisce le cause o chi ne è responsabile. Come nei TG, dominano le misure di adattamento (67% degli articoli) e solo in un caso su dieci si parla di azioni di mitigazione. Spazio, invece, alle conseguenze: nel 93% dei casi si fa riferimento ai rischi per la salute, per i lavoratori, per l’economia. Quanto alle fonti, qui il trend si inverte: a parlare sono soprattutto esperti, rappresentanti del mondo scientifico, economico, sanitario e politico. I cittadini restano fuori.
Social: la calura del negazionismo
Il rapporto guarda anche ai social media, dove l’informazione si mischia – spesso malamente – con l’opinione. Su Facebook, l’analisi ha considerato 136 post dedicati alle ondate di calore pubblicati da dieci testate, tra cui anche Il Fatto Quotidiano, Libero, Domani, La Verità e Il Giornale. Solo il 13% attribuisce il caldo anomalo al cambiamento climatico. E tra questi, appena tre post citano esplicitamente l’origine antropica del fenomeno. Sui profili delle testate più schierate a destra, la questione viene ridotta a un pretesto per lo scontro ideologico, tra toni sarcastici e accuse di allarmismo.
Nei commenti degli utenti – vera cartina tornasole del dibattito online – il panorama si fa più cupo. C’è chi minimizza (“le estati calde ci sono sempre state”), chi attacca i media per “catastrofismo”, chi si scaglia contro le soluzioni proposte (come l’auto elettrica o la transizione energetica), chi mette insieme crisi climatica e pandemia in un unico calderone complottista. Il sarcasmo dilaga, usato come arma per screditare, irridere, rifiutare ogni narrazione scientifica.
Greenpeace: “Serve un altro tipo di racconto”
“Lo studio evidenzia una mancanza di contestualizzazione adeguata delle ondate di calore e una scarsa attribuzione climatica del fenomeno da parte dei principali media italiani”, sottolinea Simona Abbate, della campagna Clima di Greenpeace Italia. “Eppure, l’impatto crescente della crisi climatica sulla salute pubblica, sull’ambiente e sull’economia richiederebbe una copertura mediatica approfondita, capace di giocare un ruolo nella prevenzione dei danni e di dare spazio alle cause e alle soluzioni strutturali”.
In altre parole: raccontare il caldo senza parlare del clima è come descrivere l’acqua che bolle senza nominare il fuoco. Continuare a farlo significa lasciare il pubblico disarmato, in balia di eventi che vengono percepiti come imprevedibili, inevitabili e, soprattutto, non prevenibili. Quando invece lo sono. Ma bisogna cominciare a raccontarlo.