14.04.2024
Lenti e vulnerabili, nemmeno strategici. I 330 droni iraniani, lanciati la notte scorsa contro Israele, sono serviti solo a restituire a Israele il ruolo storico di vittima delle aggressioni arabe, che la lunga guerra di Gaza aveva offuscato, e oltretutto ad allargare la spaccatura tra sciiti e sunniti. Prime analisi.
Dei 330 droni e missili lanciati dall’Iran solo una manciata è giunta su Israele, causando minimi danni. Il 99% degli ordigni è stato distrutto in volo dalla Heyl Ha’Avir, l’aeronautica israeliana, e dal leggendario sistema antimissile Iron Dome, con l’aiuto delle forze aeree statunitensi, britanniche, francesi e – sorpresa – giordane e saudite. La prima cronaca della risposta iraniana alla distruzione del consolato a Damasco il 1° aprile scorso è tanto breve quanto è chiaro il giudizio: la montagna che partorì il topolino. In attesa che emergano dettagli, si può tentare una prima analisi degli eventi di questa notte e indicare alcune domande.
Il primo punto riguarda i droni, l’arma nuova che ha debuttato in massa sui campi di battaglia in Ucraina. Se la capacità di lanciarli a centinaia è senza dubbio importante, è altrettanto ovvio che la lentezza li rende molto vulnerabili: a 185 km/h gli Shahed 136 impiegano circa 6 ore per volare dall’Iran a Israele, che scendono a 3 per gli Arash 1 (350 km/h). Tempi uguali per quelli lanciato dagli allearti Houthi nello Yemen, un po’ più brevi per quelli dall’Iraq. Per abbatterli bastano dunque elicotteri, addestratori, persino la contraerea classica. In sintesi, vanno bene per azioni terroristiche contro le navi o le città a breve distanza, ma i voli lunghi diventano uno stillicidio, soprattutto quando l’avversario può contare su radar e satelliti. Il secondo è che ciò era già noto agli iraniani. È dunque probabile che la decisione di usare sopratutto i droni sia stata legata ad un calcolo di immagine. Non potendo, per motivi politici, non reagire all’attacco al consolato, si è scelto un modo spettacolare e di facile presa sulle opinioni pubbliche musulmane ma, al contempo, non troppo difficile da bloccare. Usando i missili balistici Shahab, la provocazione avrebbe richiesto una contro-risposta israeliana e innescato una spirale difficile da fermare. Così, invece, la crisi può essere gestita e contenuta senza perdere troppo la faccia.
Il terzo è che l’Iran paga comunque prezzi politici, per esempio a Israele il ruolo storico di vittima delle aggressioni arabe, che la lunga guerra di Gaza aveva in parte offuscato. Corollario ancor più importante è che Riyadh e Amman si siano schierate pubblicamente contro Teheran, aprendo i propri cieli ai caccia di Tel Aviv per abbattere i droni. La spaccatura tra sciiti e sunniti è sempre più evidente, così come il fallimento della pretesa iraniana di egemonia regionale. Né si può trascurare l’importanza del segnale dato da USA e Regno Unito nel dividere le critiche a Netanyahu dalla difesa di Israele. L’ombrello protettivo è ancora lì.
Dal punto di vista operativo, sono poco chiari i bersagli dell’attacco. I lievi danni alla base di Nevratim portano alcuni a dire che l’Iran mirasse solo a obiettivi militari, legittimi ai sensi del diritto internazionale umanitario. Il fatto che si registrino 30 feritio civili, tra cui una bimba di 7 anni, suggerisce però il contrario. Da capire è il ruolo della Russia, il cui legame con l’Iran in chiave anti-ucraina e anti-americana è sotto gli occhi di tutti. C’è stata una consulenza politico-militare? I droni utilizzati incideranno sulle forniture a Putin? La Russia ha fornito guida e ricognizione satellitari per la lunga traversata del deserto?
A poche ore dalla distruzione dell’ultimo drone, è impossibile rispondere a ogni domanda. Quel che è certo è che Israele ha passato la notte indenne, che oggi ci sarà un vertice telefonico del G7 e che della questione è stato investito il Consiglio di sicurezza ONU, dove qualche nodo verrà al pettine.