Con l’entrata in vigore dei nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha ufficialmente rilanciato una politica commerciale aggressiva, riaprendo una fase di tensioni economiche internazionali. Dalla mezzanotte di ieri a Washington (le sei del mattino in Italia), una valanga di tariffe – in alcuni casi fino al 50% – ha colpito le importazioni provenienti da decine di Paesi, tra cui partner storici come l’Unione Europea, il Giappone e la Corea del Sud.
L’impatto sui prezzi non si è fatto attendere. Secondo un’analisi condotta dal Budget Lab dell’Università di Yale, le nuove tariffe causeranno un aumento medio dei prezzi al consumo dell’1,8% nel breve periodo, con un incremento che potrebbe superare il 3% in alcune categorie chiave, come l’elettronica, gli alimentari trasformati e l’abbigliamento. A lungo termine, anche dopo un potenziale riassestamento delle catene di fornitura, l’inflazione si manterrà su livelli elevati.
I cittadini americani stanno già cambiando le proprie abitudini di spesa. Come riportato da Reuters, le famiglie a basso reddito – le più esposte agli effetti dell’inflazione – cercano sempre più spesso prodotti in formati ridotti, offerte sotto i 5 dollari, e pasti veloci a basso costo. Questo non è solo un segnale di disagio economico, ma anche un indicatore di quanto rapidamente le nuove politiche tariffarie stiano colpendo la vita quotidiana.
Dal punto di vista macroeconomico, le nuove entrate doganali rappresentano un afflusso significativo per il Tesoro Usa: secondo alcune stime, il gettito fiscale derivante dai dazi potrebbe superare i 300 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, questa entrata straordinaria rischia di essere neutralizzate dagli effetti recessivi delle misure: il Peterson Institute for International Economics ha stimato che il costo netto per l’economia americana potrebbe raggiungere i 200 miliardi annui, tra perdite di produttività e contrazione dei consumi.
A livello internazionale, l’impatto è ancor più destabilizzante. Il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato l’allarme: le nuove tariffe minacciano la crescita globale e rischiano di alimentare ulteriormente l’inflazione, già sotto pressione a causa dei conflitti e della volatilità energetica. Intanto, diversi Paesi colpiti dai dazi – tra cui India, Brasile, Svizzera e Sudafrica – stanno cercando di avviare negoziati con Washington. Ma per ora, gli sforzi diplomatici hanno ottenuto pochi risultati concreti.
Anche i mercati finanziari osservano con crescente preoccupazione. Le analisi di Business Insider e Morgan Stanley segnalano una frammentazione settoriale: mentre alcune imprese esportatrici riescono a compensare l’impatto grazie a un dollaro più debole, le aziende legate ai consumi interni e all’importazione di componenti soffrono pesantemente. La conseguenza è una crescente instabilità nelle borse, con effetti imprevedibili sul lungo periodo.
In sintesi, il ritorno alla politica dei dazi voluta da Donald Trump potrebbe garantire una temporanea iniezione di risorse nelle casse dello Stato, ma al prezzo di una crescente pressione sui consumatori, di una minore competitività globale delle imprese statunitensi e di un rallentamento dell’economia mondiale. Il rischio, secondo molti osservatori, è che la guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti possa trasformarsi in un boomerang, capace di colpire anche chi l’ha lanciata.