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Cultura

La quinta stagione

09.06.2024

Piattaforme digitali parte integrante della nostra vita quotidiana, una funzionalità che rischia di creare un’identità virtuale che, per surplus di iperconnessione, paradossalmente, accresce il nostro status di isolamento e chiusura verso il prossimo.

Ironizzando ci si accorge che non esistono più le quattro stagioni canoniche (per non parlare delle mezze). Ce n’è una in più: quella delle piattaforme digitali. In pochi anni l’accesso al variegato mondo delle informazioni e dei servizi ha cambiato pelle, dettando nuove normative ed un approccio diverso. Se prima era necessario spostarsi, oggi basta un click. Il mondo che si guardava dalla finestra è entrato in casa. Grazie all’innovazione tecnologica, immettersi nel flusso continuo dei contenuti, cavalcare le notizie ed usufruire dei servizi ha un mantra: l’online. È la parola magica, modello Mary Poppins, che ha aperto le porte alla stagione delle piattaforme digitali. Impegnati come siamo ad interagire in Rete quotidianamente con un contesto, reale nella sua virtualità (evviva il paradosso), la condivisione ormai generalizzata (specie da parte dei giovani) sui social network di contenuti personali ed emotivi, oppure di rimbalzo dai recessi del web, offre la possibilità di agire in un ecosistema interconnesso di interazioni, integrazioni conoscitive, ma anche di pericolosi slittamenti nel pantano diffamatorio della violenza gratuita. L’identità personale online viene plasmata dalla comunità social, condizionando le scelte di ognuno su cosa pubblicare (o no) per essere accettati.

I giovanissimi, con i loro percorsi di vita in continua crescita evolutiva, avvertono l’esigenza primaria della visibilità, perché apparire più “forti” va incontro all’apprezzamento (ricercato) dell’intera community. Ed utilizzare un proprio linguaggio a seconda di quello che il social richiede, induce ad un adeguamento specifico che va dalla formalità professionale di Linkedin ai maggiori spazi di libertà concessi da Facebook o Instagram. «La società è un insieme di palcoscenici in cui rappresentiamo noi stessi in modo diverso» afferma Irving Goffman, sociologo. Il nostro profilo che compare in Rete si rapporta ad una triangolazione di identità personale, sociale e digitale, in un continuo scambio di ruoli che forse avrebbe incuriosito lo stesso Pirandello, e che per surplus di iperconnessione accresce lo stato di chiusura e isolamento. Un effetto di reciprocità in cui i social network diventano ambiente della realtà quotidiana pervadendo la vita degli individui, tanto da limitarne l’intimità. Tutt’insieme nel grande calderone planetario che indica in 4,76 miliardi, pari al 60% della popolazione mondiale, gli utenti attivi sui social (Digital Global Overview Report), in cui le identità degli individui (noi compresi) variano in base alla gestione dei rispettivi profili, tramite contenuti visivi, sonori e testuali, alla luce di nuove forme di socialità (agorà della polis greca, adieu), strettamente legate allo strumento che le determina.

Diventate onnivore (anche per fini economici), le piattaforme automatizzate e organizzate attraverso algoritmi e interfacce, hanno nei dati il cuore di tutto, la misura del valore di ogni cosa. La relazione utenti-dati-spazio dei flussi/luoghi sollecita una domanda: se la creazione dell’identità virtuale (al pari di quella individuale) è legata a processi soggettivi ed ambientali, come cambiano l’informazione, le narrazioni e l’intrattenimento in un’industria composta prevalentemente da grandi piattaforme? Il frammento (come content) generato da una creatività sempre più commercializzata dal flusso indistinto di Tik Tok, Instagram e divorato dalle library di Spotify, Netflix, sembra innescare l’avvento di nuove sfide e opportunità legate all’intelligenza artificiale applicata a spazi immersivi, a testi e immagini. Un moloch privo di freni da controllare. Iperconnessi, sì. Ma vulnerabili.

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