Le due opzioni in campo sono queste. Da una parte c’è il Green Deal, cioè il progetto europeo per entrare in partita. Per compensare con innovazione tecnologica, economia circolare, energie rinnovabili, capacità di ricerca e di investimento la minore disponibilità di materie prime e il ritardo accumulato nella prima fase della transizione ecologica rispetto ai più dinamici mercati asiatici. La scommessa del Green Deal (e del Green Industrial Deal che rappresenta la seconda fase del processo) è di dare concretezza agli ideali europei. Welfare, solidarietà, equità restano principi astratti se non hanno gambe economiche per correre. Mettendo sul piatto un forte impegno economico in questo campo, l’Unione Europea potrebbe rafforzarsi in modo significativo offrendo ai mercati i prodotti di cui oggi c’è bisogno: quelli che allineano sicurezza economica e sicurezza ambientale. È il tentativo di trovare un posto nell’economia del ventunesimo secolo.
Dall’altra parte ci sono i dazi di Trump, cioè il bastone contro gli alleati storici, un muro a favore di un’economia protezionista e di uno Stato illiberale, un terremoto economico (che però potrebbe finire per avere il suo epicentro a Washington). È il tentativo di riportare il mondo all’inizio del ventesimo secolo.
L’Europa delle democrazie parlamentari si è schierata in modo netto contro i dazi di Trump. Giorgia Meloni si è limitata a parlare di “errore” per definire la guerra commerciale che sta tenendo il mondo con il fiato sospeso, mentre ha attaccato con decisione il Green Deal considerato l’origine di tutte le sventure, colpevole di aver imposto regole “ideologiche e non condivisibili”.
E tutto questo la nostra presidente del Consiglio lo ha fatto senza una visione di lungo periodo, in nome del pragmatismo. Dietro quel paravento semantico – accusano le opposizioni – il disegno è chiaro. Volare da Trump con in valigia ordini d’acquisto per gas liquefatto e armi a stelle e strisce, sperando di ottenere in cambio uno sconto sui dazi. Nessuna visione di lungo periodo, solo la speranza di una gentilezza americana in cambio di un assegno.
Peccato che il gas liquido made in Usa abbia un piccolo difetto: costa molto di più del gas tradizionale. E non solo in termini economici. Il suo ciclo di vita comporta emissioni più alte, un’impronta ambientale pesante, e un perpetuarsi della dipendenza energetica dai fossili. Dalla Russia all’America, cambia il fornitore non il problema. L’autonomia energetica rimane un titolo da convegno, mentre le bollette di famiglie e imprese continuano a salire.
Nel frattempo serve un nemico da additare. Ed ecco che il Green Deal, l’unico tentativo europeo di affrontare seriamente la crisi climatica e industriale, diventa il bersaglio. “Colpevole” di aver imposto regole, visioni, investimenti. Ma è una colpa progettare il futuro? Secondo il ministro Urso sì: il Green Deal, dice, avrebbe “soffocato l’industria europea”. Una dichiarazione che suona come una marcia funebre per l’innovazione.
Intanto, come Trump, anche Meloni liquida il terremoto in corso con un “niente panico”. Gli italiani si sentono meno tranquilli di lei.