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Cronaca, Esteri

L’America confusa

12.08.2024

Chi sprizza energia da tutti i pori ora è Kamala Harris, impegnata in comizi affollatissimi. Il suo candidato per la vicepresidenza Tim Walz risulta molto più simpatico di Vance scelto da Trump che, sorprendentemente, non trova la chiave giusta per tornare all’attacco. Resta il fatto che entrambi i candidati parlano con due Americhe diverse.

Secondo il più recente sondaggio New York Times-Siena College, Kamala Harris avrebbe superato Donald Trump in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, tre degli Stati in bilico decisivi per assegnare la presidenza americana. Naturalmente, tra i sondaggi e il voto c’è una differenza enorme, e nel complesso Trump è ancora in testa nelle previsioni.
Eppure, è chiaro che nelle ultime tre settimane la corsa per la Casa Bianca ha cambiato ancora una volta polarità. Per riassumere, fino a giugno Trump era sostanzialmente alla pari con Joe Biden. Da fine giugno, la stanca prestazione di Biden nel dibattito, l’ondata di simpatia per l’attentato di Butler e la pubblicità per la convention avevano conferito a Trump un vantaggio che sembrava incolmabile. La nomina di Harris ha ribaltato di nuovo la scena. Il candidato-nonno è ora Trump, che fatica a fare discorsi coerenti, non importa se ai giornalisti neri o in conferenza stampa a Mar-a-lago. Chi sprizza energia da tutti i pori è invece Kamala, impegnata in un tour de force di comizi affollatissimi. A questo si aggiunge la scelta dei candidati vice presidenti: il governatore del Wisconsin, Tim Walz, scelto da Harris risulta molto più simpatico dello scrittore-investitore J.D. Vance scelto da Trump più per istinto che per analisi. Il primo, già insegnante liceale e allenatore di football, è lo zio che tutti vorrebbero, semplice e gioviale; l’altro è “weird”, cioè “strano”, portatore di idee radicali e balzane. Per fare un esempio, Vance è contrario a qualsiasi tipo di fecondazione artificiale; Walz e la moglie sono riusciti ad avere un figlio solo grazie ad essa. Come dire: la filosofia astratta contro l’esperienza concreta.

Ma questa è normale politica. La vera sorpresa è la difficoltà di Trump a trovare la chiave giusta per attaccare l’avversaria. Contro Biden bastava far leva sull’età. Contro Harris non stanno funzionando gli attacchi etnici (“è una nera di comodo, in realtà è indiana”), di genere (con annesse insinuazioni di aver fatto carriera grazie al suo ex compagno Brown), di insulti volgari. In compenso, la comunicazione di Harris fa leva sulla vanità dell’ex presidente per innervosirlo e spingerlo a fare dichiarazioni incoerenti. Uno dei sistemi è diffondere sui social le foto dei comizi di Trump, semivuoti, e quelli di Harris, strapieni. Un altro è mettere in dubbio la parola di Trump: è il caso di un volo in elicottero con l’ex compagno di Kamala, in realtà avvenuto con un altro Brown.

Di qui a novembre, la fragilità psicologica di Trump, uomo abituato a decidere da solo e di pancia, potrebbe essere dunque il suo tallone d’Achille. Sbaglierebbe, però, chi pensasse che la corsa sia già finita. Non solo perché di qui a novembre potrebbe accadere qualsiasi cosa, sia sul versante interno quanto in Medio Oriente e in Ucraina, ma perché l’inversione di tendenza e l’energia non indicano che la gara sia finita. Al massimo, sono il segnale che la rincorsa è iniziata  bene.

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