15 Aprile 2025
/ 11.04.2025

L’auto italiana al bivio: o si accende il motore della transizione o si spegne tutto

Se continuiamo a evitare la transizione elettrica e puntare sul vecchio modello entro il 2030 la produzione potrebbe dimezzarsi, con una perdita che può arrivare fino a 7,5 miliardi di dollari e oltre 90.000 posti di lavoro diretti e indiretti

C’era una volta l’Italia delle auto. Quella che produceva un milione e mezzo di veicoli all’anno, che faceva scuola con il design, la meccanica, la corsa. Oggi ne produce poco più di 300 mila. Un crollo dell’85% rispetto al massimo storico del 1989. È tutta colpa dell’elettrico come dice la destra che vuol far fuori il Green Deal? 

Se si guarda a chi oggi nel mondo ha successo in questo campo viene da dire il contrario. È la Cina che ha cavalcato la transizione elettrica a guidare il mercato per una ragione molto semplice: risponde ai bisogni del mercato. Se per evitare di far avanzare il deserto e gli uragani dobbiamo abbattere le emissioni serra, la strada della fuoriuscita dai combustibili fossili è obbligata. Si può rimandare, a patto di rassegnarsi a comprare i prodotti che chi arriva prima piazza meglio.

Uno studio appena pubblicato da Ecco e Transport & Environment, realizzato da economisti della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e del Centro Ricerche Enrico Fermi, fotografa il futuro prossimo dell’automotive italiano. Lo scenario, senza un intervento deciso, è impietoso: entro il 2030 la produzione potrebbe dimezzarsi, con una perdita che può arrivare fino a 7,5 miliardi di dollari e a oltre 90.000 posti di lavoro diretti e indiretti.

Il costo dell’inazione

Con un governo che affronta i problemi guardando lontano, l’Italia affronterebbe la transizione con un piano industriale solido, incentivando l’innovazione, proteggendo i lavoratori, attirando investimenti. Ma, continuando a guardare all’indietro e a rimpiangere i tempi in cui si consumava petrolio e carbone senza sensi di colpa, si prefigurano tre scenari. Quello più soft, detto low intervention, prevede che l’economia riesca in parte a riassorbire i lavoratori in esubero: anche in questo caso, però, si perderebbero comunque 66.000 posti di lavoro e si dovrebbero stanziare almeno 510 milioni di dollari in cassa integrazione.

Nel caso peggiore, lo scenario high intervention – in cui lo Stato deve farsi carico del fallimento industriale – il conto per la collettività salirebbe a 2 miliardi di dollari in dieci anni solo per sostenere i lavoratori espulsi dal sistema. Una cifra doppia rispetto all’intera spesa pubblica italiana destinata, nel 2022, all’assistenza ai disoccupati.

La trappola della neutralità tecnologica

Uno dei freni più forti alla trasformazione, sottolineano i ricercatori, è la retorica della neutralità tecnologica. In nome della libertà di scelta industriale si finisce per non scegliere nulla, lasciando che siano altri Paesi – e altre imprese – a conquistare i mercati della mobilità del futuro. Mentre Germania, Francia, Stati Uniti e Cina accelerano sull’elettrico, sostenendo ricerca, sviluppo e riconversione produttiva, l’Italia resta impantanata.

Come ha spiegato Andrea Boraschi, direttore di T&E Italia, “resistere alla transizione è una strategia perdente. Il presente e il futuro dell’automobile sono elettrici”. Serve un quadro normativo stabile, meccanismi premianti per chi investe nelle tecnologie giuste, e una visione industriale che metta al centro l’innovazione.

Cosa fare subito

Lo studio propone un’agenda concreta per risalire la china, basata su quattro pilastri: missione, settore, tecnologia e mercato. In pratica: sapere dove si vuole andare, investire su ciò che conta, creare un ecosistema competitivo, stimolare la domanda. In cima alla lista c’è il sostegno all’elettrificazione delle flotte aziendali e il cosiddetto social leasing – formule di noleggio accessibili anche per famiglie a basso reddito – in grado di democratizzare l’accesso alla mobilità elettrica.

Accanto agli incentivi all’acquisto, servono premi alla produzione nazionale: un Ecoscore che riconosca il valore ambientale e industriale dei veicoli made in Italy, e misure fiscali per stimolare ricerca e sviluppo, soprattutto nella filiera delle batterie, vero cuore tecnologico dell’auto elettrica.

E poi c’è la questione dell’energia: l’alto costo dell’elettricità, aggravato dal legame con il prezzo del gas, rappresenta un handicap competitivo per l’Italia. Disaccoppiare le tariffe delle rinnovabili da quelle del fossile è una delle chiavi per rendere il Paese più attrattivo per chi vuole produrre auto (e componenti) sostenibili.

Un bivio che è anche un’opportunità

“Non possiamo più permetterci di rincorrere il cambiamento”, ha detto Massimiliano Bienati di Ecco, “dobbiamo anticiparlo”. E ha ragione. Perché se è vero che la transizione comporta costi, è ancora più vero che l’immobilismo ne comporta molti di più. E non solo in termini di Pil e occupazione: in gioco c’è anche la possibilità di scrivere una nuova stagione industriale per l’Italia, meno dipendente, più resiliente, più green.

Il mondo dell’auto cambia. Lo fa in fretta. E l’Italia non tiene il passo. Non è un problema di domanda, ma di offerta: mancano incentivi forti, infrastrutture di ricarica capillari e una narrazione politica che smetta di difendere l’indifendibile. Invece di buttare soldi in un modello industriale al tramonto, è il momento di investire sul nuovo. L’alternativa? Lasciare che l’auto italiana si spenga lentamente, fino a diventare solo un ricordo da museo.

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