Pare ormai questione di poco e l’intelligenza artificiale ci aprirà un vero canale di comunicazione con i nostri animali. Quello che fa ognuno di noi segretamente o rendendolo pubblico – e cioè arrangiare una vocina che dà forma ai presunti pensieri del nostro pet nelle situazioni quotidiane – diventerà obsoleto perché la comunicazione diverrà reale, non più ipotetica. O meglio, immaginata da noi.
Un vezzo, quello di indossare i panni del ventriloquo e dar corpo ai pensieri dei nostri pet che per alcuni si è trasformato in un vero e proprio lavoro. Un web-mestiere, manco a dirlo. Per fare solo un esempio, la pagina del cane Chico (@iosonochico) che commenta con voce umana (quella del suo proprietario) fatti e fatterelli più o meno straordinari viene seguita da un milione di persone.
Cani e gatti ma non solo, la ricerca nel mondo
Muove la coda? Le orecchie sono basse? Si rotola sulla schiena? Chi ha un animale lo sa: fino ad oggi, interpretare il linguaggio corporeo significava tradurre, o almeno tentare di farlo, i loro pensieri. Tutto questo potrebbe non essere più necessario. Qui parliamo di una vera e propria conversazione col cane di casa. I filoni di ricerca, sperimentazione e operatività sono avanzati.
Il progetto più ambizioso, è sicuramente quello del Jeremy Coller Centre for Animal Sentience, il primo centro scientifico dedicato alla coscienza animale. Avrà sede alla London School of Economics and Political Science e diventerà operativo tra pochissimi giorni. Il 30 settembre infatti i team di ricerca inizieranno a lavorare su sistemi di dialogo con cani e gatti ma anche con altri animali – e questa parrebbe una novità ulteriore – come mammiferi ma pure insetti o cefalopodi (come le seppie, per capirci).
Altro interessante filone è quello rappresentato dal progetto “Beans” (Benchmark of Animal Sounds) ed è sviluppato dall’organizzazione no-profit Earth Species Project: complessi algoritmi cercano pattern che si ripetono nel linguaggio animale per decodificarli e assegnare loro un significato. In poche parole, tradurli. Costruire questo ponte linguistico interspecie è un campo di ricerca talmente interessante (anche economicamente, ovvio) che colossi come Google se ne stanno occupando. In particolare, si sta lavorando per addestrare l’intelligenza artificiale a costruire un vero vocabolario del linguaggio dei delfini.
Tradurre, comunicare: siamo davvero pronti?
Se la tecnologia corre, i dubbi si insinuano: demolire questa barriera sarà un bene? Quando davvero avranno la facoltà di comunicare con noi, cosa potranno dirci i nostri animali? O cosa potranno rinfacciarci? Sono molte le cose che vengono in mente. E non sono rassicuranti.
Questa contemporanea Stele di Rosetta, come è stata definita da alcuni ricercatori inglesi, sarà in grado di colmare le lacune su ciò che sappiamo sugli animali ma contemporaneamente ci metterà di fronte a questioni più profonde su come li trattiamo o di cosa hanno realmente bisogno.
C’è poi un rischio ulteriore e, diciamo così, squisitamente “tecnico” che sarà complesso e difficile neutralizzare: la tendenza dell’IA a generare risposte solo per compiacere l’utente e non l’animale. Inventate ad hoc. Nel caso di un comportamento compulsivo come l’ansia da separazione, è l’esempio classico, il “traduttore” ci dirà cosa serve davvero al nostro pet o tenderà semplicemente a rassicurarci? In definitiva anche per questo campo d’applicazione, che sembrerebbe più innocuo di altri e cioè il tentativo di lanciare un ponte linguistico col mondo animale, le insidie legate all’uso dell’intelligenza artificiale non mancano.