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Cronaca, Giustizia, Sport

L’iperandrogenismo nei Giochi Olimpici, un dibattito continuo

29.07.2024

“Chiunque, a prescindere dall’identità di genere, dal sesso e dalle sue possibili variazioni, ha il diritto di praticare sport senza discriminazioni”. Cresce il dibattito sulla “policy” da seguire per garantire equità e inclusione sulla base dell’identità di genere e delle variazioni di sesso. Primo approfondimento sugli ultimi avvenimenti.

In molti ricorderanno, dai tempi della scuola, che le Olimpiadi della Grecia classica erano un affare esclusivamente fra atleti di sesso maschile, al quale le donne non potevano partecipare né come atlete né fra il pubblico e le uniche presenze femminili ammesse erano poche sacerdotesse. Meno noto è il fatto che anche Pierre de Coubertin, “inventore” dei giochi olimpici moderni, in un eccesso di filologica ammirazione per la classicità, pensò di escludere le donne dalle gare della prima Olimpiade, quella di Atene del 1896.
E quasi nessuno ricorda la storia della prima coraggiosa sfida a quel divieto (che oggi sembra tanto retrogrado), lanciata della greca Stamàta Revithi, che cercò di iscriversi alla gara regina di quelle e delle altre Olimpiadi dei nostri giorni, la maratona e, dopo essere stata respinta a causa del proprio sesso, decise di correrla da sola il giorno dopo.

Le atlete di sesso femminile furono ammesse a partire dai Giochi di Parigi del 1900, ma ci sono voluti centoventotto anni per raggiungere la piena parità di genere alle Olimpiadi, che ancora oggi sono l’evento sportivo per eccellenza. Il 26 luglio 2024 la fiaccola torna, per la terza volta, a Parigi e l’appartenenza sessuale è ancora oggetto di controversia, perché molte atlete transgender saranno escluse da diverse discipline. La scelta ha rinfocolato la polemica, che da anni divide il mondo dello sport, sulla presunta superiorità fisica delle atlete transgender, accusate da alcuni di competere “slealmente” nelle categorie femminili.

L’argomento è fra i più delicati e richiederebbe di rispondere a un quesito ampio e controverso: se sia possibile, ragionevole e sufficiente suddividere la natura umana e l’identità sessuale all’interno del paradigma binario uomo-donna. Non lo faremo in queste pagine, limitandoci a esaminare le soluzioni elaborate dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO).
L’organo internazionale che governa i Giochi ha affrontato la questione prevedendo una verifica preventiva, individuata come strumento non di discriminazione, ma di garanzia, con questa motivazione: “chiunque, a prescindere dall’identità di genere, dal sesso e dalle sue possibili variazioni, ha il diritto di praticare sport senza discriminazioni e in un modo che rispetti la sua salute, sicurezza e dignità“.

Nel novembre 2021 il CIO ha tracciato le prime linee guida che ogni singola Federazione Internazionale avrebbe dovuto seguire nel predisporre la propria “policy”, allo scopo di perseguire l’equità, l’inclusione e la non discriminazione sulla base dell’identità di genere e delle variazioni di sesso. Così, sono state le diverse Federazioni a dover affrontare fenomeni come liperandrogenismo o a cercare una disciplina equilibrata, e fondata su criteri oggettivi, da applicare agli atleti transgender, che hanno effettuato la transizione uomo-donna.

Le due Federazioni più coinvolte – quella del nuoto (World Aquatics) e quella dell’atletica (World Athletics) – hanno ritenuto di assumere quale criterio principale per la distinzione tra le categorie maschili e femminili, al fine di evitare vantaggi competitivi, la concentrazione di testosterone nel sangue e hanno stabilito il limite di 2,5 nmol/L (nano-moli per litro), al di sotto del quale si considera che l’atleta sia di sesso femminile.
Si tratta di un criterio indubbiamente oggettivo, ma biologicamente discutibile, perché si presta a penalizzare le atlete affette da iperandrogenismo: la condizione caratterizzata dalla presenza di un eccesso di androgeni od ormoni sessuali maschili – in particolare il testosterone – nel sangue di una donna. L’applicazione del limite ha comportato l’esclusione dalle competizioni femminili di atlete come la mezzofondista sudafricana Mokgadi Caster Semenya o la nuotatrice statunitense Lia Thomas, che sono state costrette a ricorrere al Tribunale Arbitrale per lo Sport (noto anche come CAS, acronimo di Court of Arbitration for Sport).

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