Alla Cop30 di Belém arriva una notizia negativa per l’Italia: continuiamo a retrocedere nella classifica che misura l’impegno contro la crisi climatica. Il nuovo “Climate Change Performance Index 2026”, redatto da Germanwatch, Can International e NewClimate Institute in collaborazione con Legambiente, colloca il nostro Paese al 46° posto su 64 economie analizzate. Tre posizioni perse in un solo anno, 17 dal 2022. Un declino che non ha scuse e che racconta una politica climatica che arranca.
In vetta c’è ancora la Danimarca al quarto posto (le prime tre posizioni restano simbolicamente non assegnate perché nessun Paese è considerato realmente allineato allo sforzo per non superare l’aumento di 1,5 °C). Seguono Regno Unito al quinto e Marocco al sesto: tre modelli diversissimi, accomunati da scelte politiche nette su rinnovabili, efficienza e mobilità pubblica.
All’estremo opposto della classifica compaiono Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita. La Cina, pur restando tra gli ultimi, risale leggermente al 54° posto grazie al boom delle tecnologie pulite, anche se le sue emissioni restano ancora in crescita per colpa del carbone.
E l’Italia? Sprofonda a metà della zona bassa, assieme ai grandi ritardatari del G20 come Sudafrica, Indonesia e – ormai stabilmente – l’Australia del gas e il Giappone del carbone.

Pniec poco ambizioso, rinnovabili troppo lente: i nodi italiani
La performance italiana è zavorrata soprattutto da un dato: la politica climatica nazionale, che nel ranking dedicato finisce al 58° posto. Il nuovo Pniec permette una riduzione delle emissioni del 44,3% entro il 2030 (49,5% includendo l’assorbimento delle foreste). Numeri inferiori al già debole 51% inizialmente previsto dal Pnrr, e lontani dal -55% richiesto dall’Unione Europea. Anche il rapporto Ispra sullo stato dell’ambiente mostra un Paese fermo ai box.
Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, lo dice con chiarezza: l’Italia “continua ad avere una visione miope” che rallenta la lotta alla crisi climatica e al tempo stesso crea nuove dipendenze energetiche da Paesi instabili. Senza un modello fondato su fonti pulite, reti, accumuli ed efficienza, l’Italia perderà sia la battaglia climatica sia quella economica.
I numeri confermano la diagnosi. Dal 1990 al 2023 le emissioni italiane sono scese del 26,4%, un progresso lento e insufficiente. Con le politiche attuali, entro il 2030 arriveremmo solo a -42%. Sul versante delle rinnovabili, la situazione è impietosa: nel 2023 la quota si è fermata al 19,6% dei consumi finali, mentre il Pniec chiede di raggiungere il 39,4%. Per centrare quell’obiettivo, avverte Ispra, bisognerebbe correre quattro volte più di oggi.
Se il problema fosse solo il ritardo, si potrebbe parlare di inefficienza. Ma il nodo è politico. Come osserva Mauro Albrizio di Legambiente, inviato alla Cop30, il piano italiano “si nasconde dietro il pragmatismo e la neutralità tecnologica” per giustificare un phase-out del carbone rinviato addirittura al 2038 e nuove scommesse su Ccs e nucleare. Due ricette che assorbono risorse, richiedono tempi lunghissimi e non affrontano la crisi del presente.
La fotografia globale: il mondo avanza, ma non abbastanza
Il “Climate Change Performance Index 2026”analizza 63 Stati più l’Unione Europea, che insieme rappresentano oltre il 90% delle emissioni globali. L’indice valuta quattro parametri: andamento delle emissioni (40%), rinnovabili (20%), efficienza energetica (20%) e politiche climatiche (20%). Ebbene, nessun Paese raggiunge la soglia delle performance compatibili con 1,5 °C. Ma alcuni avanzano.
La Danimarca continua a tagliare emissioni e spingere sulle rinnovabili, soprattutto offshore. Il Regno Unito beneficia dell’uscita dal carbone e di politiche più determinate. Il Marocco cresce grazie a investimenti nel trasporto pubblico e a emissioni pro capite tra le più basse al mondo.
Tra i grandi emettitori, la Cina mostra i primi segnali che le emissioni potrebbero aver toccato il picco. Invece l’India, pur con un settore rinnovabili in espansione, scivola al 23° posto per l’aumento del carbone e la mancanza di un piano credibile per superarlo.
L’Unione Europea complessivamente scende al 20° posto, rallentata dal calo della Germania (22°), frenata dalle scelte sui nuovi impianti a gas.
