Uno scontrino lungo metri, srotolato in Piazza di Spagna a Roma. Non è la ricevuta di uno shopping sfrenato, ma il conto che Greenpeace Italia ha presentato il 29 ottobre al governo e alle grandi compagnie petrolifere: oltre 5.000 miliardi di euro. È questa la cifra che l’organizzazione ambientalista attribuisce ai danni economici causati dalle emissioni di sei giganti dei combustibili fossili tra il 2016 e il 2025.
L’iniziativa arriva mentre gli eventi climatici estremi, non ultimo l’uragano Melissa, si moltiplicano nel mondo. Sullo scontrino gigante campeggia un elenco di 200 disastri climatici dell’ultimo decennio: dall’alluvione in Emilia-Romagna del 2023 alle devastazioni che hanno colpito comunità in ogni continente, dal Pacifico all’Africa.
La metodologia: quanto costa una tonnellata di CO₂
La nuova analisi pubblicata da Greenpeace quantifica per la prima volta in termini monetari l’impatto delle emissioni di sei delle maggiori compagnie di combustibili fossili al mondo, compresa l’italiana Eni, nel periodo successivo alla firma dell’accordo di Parigi. La metodologia utilizzata si basa sul Social Cost of Carbon (Scc), uno strumento che traduce ogni tonnellata di CO₂ emessa in un danno economico calcolato considerando gli effetti sulla salute, la sicurezza alimentare, l’innalzamento del livello del mare e gli eventi estremi per l’intero periodo in cui l’anidride carbonica rimarrà in atmosfera.
Secondo l’analisi, condotta da scienziati indipendenti, la sola Eni sarebbe responsabile di danni per 460 miliardi di euro. Una cifra che fa riflettere, soprattutto se confrontata con i profitti record registrati dalle compagnie petrolifere negli ultimi anni.
“È ora di cambiare le regole del gioco”, dichiara Simona Abbate di Greenpeace Italia. L’organizzazione chiede ai governi di tassare i grandi inquinatori e destinare i ricavi alla transizione energetica e alla messa in sicurezza del territorio. La proposta sarà al centro dei due appuntamenti internazionali di novembre: la Cop30 e i negoziati della Convention Fiscale Globale delle Nazioni Unite.
I numeri che emergono dal rapporto Lancet Countdown on Health and Climate Change 2025 danno il senso concreto dell’emergenza in Italia: nel 2024 gli italiani hanno affrontato in media 46 giorni di ondate di calore, con una perdita di 364 milioni di ore di lavoro potenziali. Un record di 15 ore per persona.
La replica di Eni: “Analisi fuorviante”
La risposta di Eni non si è fatta attendere. In una nota, l’azienda contesta radicalmente l’approccio di Greenpeace: “Greenpeace travisa la portata e la finalità del Social Cost of Carbon”, scrive l’ufficio stampa del colosso italiano. Secondo Eni, le stime del Scc sono concepite per fornire indicazioni aggregate sui costi-benefici delle politiche climatiche, non per attribuire responsabilità economiche dirette alle singole imprese.
L’azienda definisce l’esercizio “semplicistico e persino fuorviante”, sottolineando che non tiene conto delle scelte di consumo individuali né del ruolo dei governi nelle politiche climatiche. Eni evidenzia inoltre che le stime del Scc possono variare enormemente in base ai parametri scelti, come il tasso di sconto applicato, e che la comunità scientifica non si è espressa sulla possibilità di imputare quote specifiche del costo climatico globale a singole aziende.
Il dibattito tocca un nervo scoperto: chi deve pagare il conto della crisi climatica? Secondo un sondaggio citato da Greenpeace, otto italiani su dieci sarebbero favorevoli ad aumentare le tasse alle aziende fossili per coprire i danni climatici, a patto che l’onere non ricada sulle bollette dei consumatori.
La richiesta di tassare i grandi inquinatori sarà portata in piazza il 15 novembre al Climate Pride di Roma, la mobilitazione nazionale che coinciderà con i giorni della Cop di Belém. Un appuntamento che si preannuncia cruciale nel braccio di ferro tra ambientalisti, aziende e governi sul futuro energetico del Pianeta.
