La Cop30 è la Cop della verità, e inizia con una verità amara. Dieci anni dopo Parigi si ammette che la prima linea di difesa fissata nell’accordo che fu firmato nella capitale francese, il target ottimale di un grado e mezzo di scaldamento rispetto all’epoca preindustriale, è oggi irraggiungibile. È virtualmente impossibile mantenere il riscaldamento entro il grado e mezzo. Lo dice l’Organizzazione Metereologica Mondiale, lo ripete il segretario generale delle Nazioni Unite. Parole come pietre. E parole purtroppo fondate su solida scienza. Dipenderà da noi, da Cop30 e da quelle che seguiranno, se il superamento sarà un “overshoot” momentaneo di qualche decina di anni, o permanente.
La seconda verità è politica: la lotta al riscaldamento climatico e più in generale il multilateralismo vivono una difficile stagione. Ce lo dice anche la platea di capi di Stato e governo che stanno partecipando, ieri e oggi, al vertice dei leaders che anticipa di due giorni l’avvio della Conferenza delle Parti di Belem. Sono 65, molti meno che a Baku, immensamente meno degli Stati e delle parti che hanno firmato la Convenzione sui Cambiamenti Climatici. Non c’è ovviamente traccia del turbonegazionista Donald Trump, ma anche di XI Jinping, ovvero del leader del Paese che più contribuisce alle emissioni che alterano il clima, di Narendra Modi, il primo ministro di quell’India che il Paese più popoloso al mondo e, tra gli altri, di Giorgia Meloni, che nonostante sostenga l’impegno Ue sul clima -tagli delle emissioni del 90% al 2040, sebbene con scorciatoie – evidentemente ha altre priorità. Come è facile comprendere, le assenze non sono un bel segnale.
Turbonegazionisti alla Trump
Ma la fiera della speranza, sebbene menomata, deve continuare per la sua strada. Cop, come risposta ai turbonegazionisti alla Trump e ai molti che parlano bene e razzolano male, si apre così dando voce alla scienza. “Il nostro ultimo report – scandisce la segretaria generale del Wmo, Celeste Saulo – dice la scomoda verità che non possiamo negare le leggi della fisica. Il trend del riscaldamento continua, la concentrazione dei gas serra in atmosfera è ai livelli più alti da 800 mila anni e l’aumento annuale di CO₂ nel 2024 è stato il più alto che abbiamo mai misurato. E ogni giorno ne vediamo gli effetti sull’atmosfera. È quindi virtualmente impossibile mantenere il riscaldamento al di sotto degli 1,5 gradi. Questa è realtà”.
Il segretario generale delle Nazioni Unite ribadisce il concetto: “Abbiamo fallito nell’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, cioè la soglia più ambiziosa stabilita dall’accordo di Parigi.E si tratta di un fallimento morale, oltre che di una negligenza mortale”. “Ora -ha aggiunto – Possiamo scegliere di guidare o di essere guidati verso la rovina. Chiedo agli Stati di non rimanere prigionieri degli interessi dell’industria fossile. Non siamo mai stati così ben attrezzati per reagire alla crisi climatica, come dimostrano il boom delle energie rinnovabili come l’eolico e il solare. Non è più il tempo di negoziare, è arrivato quello di implementare le strategie per limitare il surriscaldamento globale”.
Le fake news
Il presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva, il padrone di casa, vuole mantenere alta l’ambizione e garantire il successo della “sua” Cop. “Questa è la Cop della verità – ha scandito nel suo intervento il presidente brasiliano – Adesso è il momento di prendere la questione sul serio. Il mondo deve decidere se avremo il coraggio e la determinazione necessari per trasformare le cose”. E Lula si è anche tolto qualche sassolino dalle scarpe quando ha attaccato quelle che ha definito “forze estremiste che fabbricano fake news sul clima per trarne vantaggi politici”. Era una stoccata a Trump. Pur senza menzionare direttamente il presidente degli Stati Uniti, il presidente del Brasile ha sottolineato che “la finestra per agire si sta chiudendo rapidamente e che le azioni di coloro che negano la verità sul cambiamento climatico stanno condannando le future generazioni a vivere su un pianeta irrimediabilmente alterato dall’aumento delle temperature”. Un crimine morale intergenerazionale.
A Belem, metropoli amazzonica non a caso scelta dal Brasile come sede della conferenza, Lula ha lanciato formalmente il suo grande piano per le foreste tropicali, il Fondo di finanziamento per le foreste tropicali (Tfff). I fondi saranno investiti nei mercati e i profitti saranno utilizzati per pagare ai Paesi in via di sviluppo una somma annuale per ogni ettaro di foresta preservata, un potente deterrente contro i cambiamenti climatici e una riserva di biodiversità. La maggior parte delle foreste primarie del mondo si trova nei Paesi tropicali più poveri, dove è più redditizio abbattere gli alberi che preservarli, da qui l’idea di creare questo fondo.
Arrivano i primi fondi
Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo potrebbero, in teoria, intascare centinaia di milioni di dollari all’anno ciascuno se riuscissero a sradicare la deforestazione. L’accoglienza è per adesso mista. Il Brasile ha già impegnato 1 miliardo di dollari dei 25 miliardi che spera di raccogliere dai governi “sponsor”. La Norvegia si è offerta oggi di stanziare il triplo, fino a 3 miliardi di dollari a determinate condizioni, e l’Indonesia si è detta disponibile a un contribuito da 1 miliardo di dollari. A bordo anche la Francia con Emmanuel Macron che è venuto a Belem per annunciare che il suo Paese fornirà “ulteriori 500 milioni di euro di sostegno entro il 2030, che potrebbero essere versati al Tfff”. Anche la Germania contribuirà, ma non ha ancora specificato un importo. Zero interesse invece dagli Stati Uniti, ovviamente, e anche la Gran Bretagna per ora si è chiamata fuori. La strada è comunque interessante, anche se accessoria a quella principale. Che è quella di trovare i soldi per mitigazione e adattamento.
“Questi dieci anni – osserva Luca Bergamaschi del think thank climatico Ecco – hanno mostrato che il cambiamento è possibile. Grazie all’Accordo di Parigi, la traiettoria di riscaldamento globale è scesa da 3,9 a 2,5 gradi. Le rinnovabili e l’efficienza energetica stanno avanzando, e i costi dell’energia solare e delle batterie si sono ridotti fino al 90%. Il mondo investe oggi oltre 2.000 miliardi di dollari all’anno in energia pulita, il doppio rispetto ai combustibili fossili. Ma non basta. Per restare sulla rotta dell’1,5 °C, occorre accelerare la trasformazione economica e industriale, e la finanza resta il motore decisivo”.
E non sarà facile. Per farlo davvero sono necessari molti soldi, e una ristrutturazione delle istituzioni multilaterali. Non basta l’accordo raggiunto a Cop29 per mobilitare almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per la finanza climatica, un obiettivo che sostituisce il precedente di 100 miliardi. Come si disse alla Cop29 servono 1.3 miliardi. Ma dove trovarli? A indicare la via dovrebbe servire la Roadmap da Baku a Belem. La Roadmap definisce un percorso per raggiungere il nuovo obiettivo di finanziamento per il clima concordato alla Cop29, ovvero convogliare 1,3 trilioni di dollari all’anno nei paesi in via di sviluppo entro il 2035. Rappresenta una visione chiara sia di ciò che deve essere finanziato sia di come farlo, presentando misure coraggiose che possono essere adottate dalle Parti, dalle istituzioni multilaterali e dal settore privato nel breve termine per imboccare la strada giusta. “La questione immediata che i paesi devono ora affrontare”, osservano al think thank climatico E3G, “è come rispondere e integrare la Roadmap nelle decisioni prese al vertice delle Nazioni Unite sul clima. L’incontro di Belém dovrebbe essere un trampolino di lancio per i paesi e le istituzioni per accelerare l’attuazione delle riforme finanziarie necessarie per l’azione per il clima, che saranno il vero banco di prova del valore della Roadmap”.
L’Europa – superato con un accordo al ribassoma tutto sommato accettabile lo scoglio del target al 2040 -continua a tenere la bandiera della lotta al cambiamento climatico. Più stinta che in passato, ma questi sono tempi difficili per l’integrità ambientale. “Il mio messaggio”, ha detto nel suo intervento al summit dei leaders la Presidente della commissione, Ursula von der Leyen, “è semplice: l’Europa mantiene la rotta. E offriamo il nostro sostegno ai nostri partner perché possano anche loro fare lo stesso, perché il mondo intero dovrebbe raccogliere i benefici della transizione pulita. siamo qui per raddoppiare i nostri impegni, sforzarci di accelerare ulteriormente la nostra attuazione, colmare le lacune rimanenti, rafforzare i nostri partenariati e fornire progressi reali”. Con l’Europa c’è la Gran Bretagna e pochi altri Paesi del nord del mondo, dalla ricca Norvegia al Canada.
Ma il vecchio continente ormai pesa solo per il 6% delle emissioni globali e l’Europa può al massimo fare da faro, da stimolo, non altro. Serve l’impegno dei giganti delle emissioni. Andati di nuovo gli Stati Uniti (secondo emettitore) serve la Cina che è al tempo stesso il grande problema, essendo il maggiore emettitore, ma anche la grade opportunità, essendo il più grade produttore e installatore di rinnovabili. Pechino è disponibile, ma con i suoi tempi e solo se quello green sarà un business. E un richiamo forte in tal senso è venuto a Belem, dove la Cina ha infatti chiesto l’eliminazione delle barriere doganali e commerciali sui “prodotti verdi” per combattere il cambiamento climatico. “Dobbiamo rafforzare la cooperazione internazionale nelle tecnologie e nelle industrie verdi, rimuovere le barriere commerciali e garantire la libera circolazione di prodotti verdi di qualità per soddisfare al meglio le esigenze di uno sviluppo sostenibile globale”, ha affermato Ding Xuexiang, vicepremier cinese, “questo significa concretamente collaborare con tutte le parti per promuovere incessantemente uno sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio”.
La partita è complessa, tra ambiente, sviluppo e commercio internazionale. E in questo contesto i Paesi che frenano – non negazionisti né schierati per il green – sono parecchi. Tra questi, l’Italia che si appella al realismo. “Dobbiamo fare in modo che la lotta al cambiamento climatico sia fatta in maniera non ideologica, ma con un atteggiamento pragmatico”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un punto stampa a Belem. “Nel corso del mio intervento”, ha proseguito Tajani, “ribadirò il nostro impegno contro il cambiamento climatico, ma non si può affrontare la lotta contro il cambiamento climatico senza tener conto della questione sociale, quello è il problema, perché se gli obiettivi sono irraggiungibili per l’impresa, per l’industria, c’è il rischio di perdere decine di migliaia di posti di lavoro. E non possiamo permettercelo”.
Stretta nella forbice tra il necessario e il possibile, la Cop30 si avvia a due settimane cade e afose come il clima di Belem. Il bilancio si farà tra due settimane. Da qui ad allora ci sarà battaglia nei corridoi, nelle sale di riunione e in plenaria. Perché, quando in gioco ci sono centinaia di miliardi di dollari, con motivazioni più o meno nobili nessuno vuol mollare l’osso.
