C’è una cima in Ecuador che sembra guardare il mondo dall’alto con la saggezza di chi c’è da sempre. È il Chimborazo, il vulcano sacro delle Ande, che secondo la cosmologia indigena è un Taita, un padre, un essere vivente che protegge e osserva. E che, da qualche anno, piange perchè il ghiaccio si ritira, ogni giorno un po’ di più.
È da questa ferita che nasce Memorias del Hielo, opera di Rosa Jijón, artista ecuadoregna e co-fondatrice, insieme a Francesco Martone, del progetto A4C – Arts For The Commons. La mostra, allestita a Quito, è un intreccio di linguaggi, memorie e resistenze che si articolano tra video, fotografia, artigianato tessile e documentazione scientifica, per raccontare la crisi climatica come esperienza vissuta, quotidiana, materiale.
Deshielándome
Tre le opere principali esposte. Il video Deshielándome (sciogliendomi) racconta il ritiro dei ghiacciai, i volti delle donne indigene che ne osservano il declino, i suoni di un ecosistema che cambia pelle.
Poi c’è un tappeto, realizzato a mano nel laboratorio artigiano Allauca Pancho di Guano (cinque metri per quattro, settanta chili di lana e quaranta mila nodi per metro quadrato). È un’opera tessile monumentale che incarna il legame tra sapere ancestrale, artigianato e memoria ecologica: “una ricomposizione di mondi sulla punta delle dita. Le dita del tessitore che, attingendo all’esperienza tramandata e accumulata nei secoli, ricostruiscono l’intreccio inedito delle fibre naturali”.
Infine, un’incisione del 1885 del vulcano Chimborazo, tratta dall’opera Geografia Universale di Élisée Reclus, il geografo anarchico che guardava alla natura come spazio di emancipazione e non come oggetto da classificare.
Insieme, questi elementi danno corpo a una narrazione che si muove su più livelli: personale, ecologico, politico. Memorias del Hielo è infatti il prodotto di un percorso di ricerca e co-creazione che ha coinvolto comunità indigene come quella di San Juan, Palacio Real e Guano, artigiani, scienziati, università e organizzazioni locali.
La montagna che piange e il mondo che non ascolta
Alla base della mostra c’è una domanda: come si racconta la fine del mondo quando avviene tutti i giorni, in silenzio, sotto i nostri occhi? L’evento non fa notizia, non entra nei radar della modernità. Ma ogni millimetro di ghiaccio che si scioglie è, per le comunità andine, un piccolo collasso, il frammento di una fine più grande. E per gli autori il ghiacciaio del Chimborazo non è solo un indicatore climatico: è un essere vivente che sta morendo. Una storia che va raccontata ascoltando la voce della memoria, unendo scienza e cosmologia, ragione e sentimento. Pensando con il cuore e sentendo con la mente, come propone l’antropologo colombiano Arturo Escobar.
La mostra è dunque una proposta estetica e politica: creare una zona di contatto pluriversale, uno spazio dove saperi ancestrali, pratiche artigiane e strumenti scientifici si intrecciano senza gerarchie. Qui, la conoscenza non si misura ma si vive. I disegni delle donne nei workshop sono archivi di memoria e ogni oggetto è pensato come un atto di resistenza, come “parte della risposta”.