02.12.2024
“Uomini si diventa”, il reading che ribalta la situazione, offrendo la prospettiva del maschio, illusoriamente potente ed egemone. Un fenomeno che non dipende dalla classe sociale o dalla provenienza. S’annida nell’atavica convinzione discriminatoria che implica la superiorità di alcuni individui su altri. A teatro.
Un tempo di parole e un tempo di silenzi. La scansione pervade un cubo nero che subito trascolora cromaticamente. È invaso dal rosso sanguinante delle vittime: le donne, il cui corpo viene esaltato e poi esposto, per essere trascinato nella polvere della discriminazione violenta. E, allora, anche lo spazio di un Teatro come il Carcano di Milano, nelle intermittenze di Mariangela Pitturru, fervida curatrice di una rassegna dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne, si raggruma attorno alle voci dolenti che da millenni reclamano attenzione, rispetto, dignità.
La parola consapevole e l’attenzione offerta ad una platea assorta agiscono da grimaldello per accedere ad altro, scardinare il chiavistello delle convinzioni immarcescibili. Così, dal leggio, per “Uomini si diventa”, nel tracciato monologante, la voce carezzevole e squassante di Alessio Boni si fa prensile, perché le parole insegnano, gli esempi trascinano. Le scorie retrive di soprusi perpetrati, le degenerazioni di atti, la volgarità dell’eloquio, il femminicidio, l’assoluta indifferenza per comportamenti ritenuti ineluttabilmente giustificati dall’uso di una società e di una cultura pensate e edificate prevalentemente da uomini, travolgono tutto con protervia.
Il trenino dell’autorevole tessitura letteraria sfila via sui vagoncini del pensiero di autori come Erba, Carlotto, Colamedici, Corrias, De Giovanni, Fois, Mencarelli, Pacifico, lungo i binari di amori malati, rapporti inestricabili nella loro insensatezza, ghettizzazioni nel ruolo sociale, prevaricazioni e violenze domestiche, con il corpo della donna esposto come non mai, incuranti della sua personalità, anima e spirito. La condizione di subordinazione rinfocola uno status mentale che nel patriarcato trova giustificazioni (questo è il pensiero diffuso) e linfa autorigenerante. La violenza maschile contro le donne non fa distinzioni e riguarda tutti (noi compresi). Il fenomeno radicato e trasversale non dipende dalla classe o dalla provenienza. S’annida, subdolo, nell’atavica convinzione discriminatoria che implica la superiorità di alcuni individui su altri, trovando posto nella lingua e nel pensiero ordinario attraverso reiterati luoghi comuni sulla donna che s’intrecciano a modi di dire o stereotipi ampiamente pervasivi di una (sotto)cultura ancora imperante (roba da femminucce, sono discorsi da uomini, l’isteria delle donne…).
Pure la comunicazione, mediante pubblicità, fiction e web, ha irretito il cambiamento proponendo un canone estetico che celebra la bellezza come valore assoluto, relega la donna ad oggetto del desiderio maschile, amplifica morbosamente i casi di violenza, per proporre modelli non rappresentativi della realtà (urge uno sforzo di denuncia e segnalazione critica). E quasi passano in silenzio le lotte per una maggiore eguaglianza tra i sessi e la volontà di superare le differenze di genere, con quella parità giuridica tra i coniugi sancita dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, quando s’impatta contro la feroce competizione come ragione delle reazioni sociali, trasposta alle gerarchie da congelare nell’organizzazione del lavoro, e in quei ruoli codificati che attribuiscono alla donna la cura domestica come fondamento della tenuta sociale.
Si brancola ancora nel limbo d’indeterminatezza tra violenza e consenso, e un adolescente su cinque non riconosce la violenza in una relazione sentimentale mancando degli strumenti per distinguere l’amore dal possesso, il rispetto dal controllo. Il retaggio culturale diventa distorsione. Mentre, sulle note intriganti di Omar Pedrini, la parola di Alessio Boni è una rasoiata, trasferisce senso, accadimenti, universi perversi: «Sì, dovrò decidermi a schiacciarti, ma… se lo faccio davvero, poi… chi pulisce?!?». Il gelo, in platea. La riflessione.
Credito fotografico: Teatro Carcano