“È nei prossimi vent’anni che decideremo se imboccare o no il sentiero che non ci potrà più riportare indietro, il sentiero che condurrà al sostanziale spegnimento dell’AMOC, la cosiddetta Corrente del Golfo. È nei prossimi vent’anni che abbiamo la finestra di opportunità per agire, finestra che poi si richiuderà. E a chi dice: che ci importa dell’Atlantico, dico di guardare cosa accadde nel periodo geologico del cosiddetto periodo Younger Dryas alla fine dell’ultima era glaciale, quando si verificò un evento di blocco dell’AMOC. E di tenere presente che anche nel Mediterraneo il cambiamento climatico sta alterando la circolazione termoalina”. Sandro Carniel, oggi dirigente di ricerca del centro di Scienze Polari del Cnr è uno dei migliori oceanografi italiani. E da buon comunicatore scientifico, come dimostrano i suoi libri sul rapporto tra oceani e clima, parla chiaro.
Ha suscitato grande clamore la ricerca pubblicata a fine agosto sulla rivista Environmental Research Letters. Come mai è così importante?
“La rilevanza di questa ricerca del gruppo di Stefan Rahmstorf è che fa capire come il collasso della AMOC, la cosiddetta Corrente del Golfo, sarà rapido e improvviso e verrà innescato da un “tipping point”, una soglia critica, che potrà essere superata in una ventina di anni. Dopodiché, superata quello soglia, il processo si autoamplificherà e non sarà più guidabile neppure riducendo drasticamente le emissioni: il nostro destino sarà segnato. Certo, per spegnersi quasi del tutto il ramo settentrionale della AMOC, quello che giunge fino in Europa settentrionale, ci metterà tra settanta e cento anni dalla data del superamento del “tipping point”. Probabilmente sarà quindi realtà nel 2.100 o giù di lì. Ma se accadrà, da allora non lo riprenderemo più. E quindi la morale è: dobbiamo agire adesso, nei prossimi venti anni, per evitare di passare il “tipping point”, perché se lo passeremo, la corrente non la riprendi neppure per le orecchie”.
Lo studio sembra prendere in considerazione, come fattori che potrebbero determinare l’interruzione dell’AMOC, soprattutto la riduzione della salinità e il riscaldamento del mare, ma non specificamente l’afflusso di acque fredde e dolci dallo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia. Visto che la Groenlandia si sta sciogliendo, lo scenario non potrebbe essere ancora più preoccupante?
“In questo studio in effetti non è inserita totalmente la dinamica dell’Artico e in particolare il contributo della fusione della calotta della Groenlandia, che scarica nell’Atlantico acqua fredda e dolce per circa 300 gigatonnellate all’anno, come dire 3.600 “colossei” di ghiaccio al giorno. Noi sappiamo che questa acqua dolce rallenta l’AMOC, il cui “motore”, come in tutte le correnti oceaniche, sono salinità e temperatura. E quindi considerare pienamente anche questo fattore potrebbe peggiorare ulteriormente lo scenario”.
Nei passati decenni già c’è stato uno rallentamento dell’AMOC?
“Ci sono ricerche che indicano un rallentamento dal 6-7% a un 15%. Sono riduzioni significative, già dimostrate, ma che ancora potrebbero ricadere in una variabilità naturale”.
Nel suo libro “Rotte mediterranee” (Ediciclo editore, 2025) in un capitolo si parla delle correnti profonde mediterranee. Il cambiamento climatico in atto incide anche sui movimenti delle masse d’acqua dei nostri mari? Anche qui c’è stato un rallentamento? E se si, che significa?
“Anche il Mediterraneo ha dei punti nei quali le correnti profonde si mettono in moto e lo fanno con lo stesso meccanismo termoalino, cioè temperatura e salinità, che vediamo con l’AMOC. I punti chiave sono tre. Uno è il nord Adriatico, dove spira la bora, che raffredda l’acqua, questa sprofonda e va verso sud mettendo in moto tuta la circolazione profonda dell’Adriatico. Lo stesso meccanismo, nel quale la chiave è sempre il ruolo dei venti, lo vediamo nell’Egeo, tra Grecia e Turchia, e poi davanti alle coste della Francia meridionale, dove c’è il terzo “motore”, quello del golfo del Leone. Questa era la situazione. Adesso il problema è che il Mediterraneo si scalda tantissimo, tre volte più dell’Atlantico, e questo determina una riduzione di tutti quelli che noi oceanografi chiamiamo, forse un po’ poeticamente, ‘motori freddi’. Cioè i punti, come quelli che ho citato, nei quali l’acqua si raffredda e viene messa in moto facendola sprofondare. Questa è acqua che porta ossigeno ed è essenziale per la vita marina profonda ma è importante anche per il bilancio energetico del bacino del Mediterraneo: se questi motori si riducono, si attiva un circolo perverso che contribuisce al suo riscaldamento. E così il risultato è che quando sul Mediterraneo arriva una grossa perturbazione, trova un mare molto molto caldo, che la rafforza e poi quando raggiunge la terraferma, ne moltiplica gli effetti, con esiti distruttivi”.
Di quanto si sono ridotti questi “motori” del Mediterraneo?
“Rispetto agli anni ’90 le stime quantitative per l’Adriatico sono di un calo del 30%, nel mar Egeo del 20%, nel Golfo del Leone del 30%. Ovviamente gli effetti sono più confinati rispetto ai volumi prodotti dall’AMOC, ma si tratta di un segnale chiaro. Il cambiamento climatico incide anche sui nostri mari”.