02.08.2024
Quante volte, parlando di Giorgia Soleri, sono spariti nome e cognome per essere sostituiti da “la fidanzata di Damiano dei Maneskin”? O ancora, di recente, abbiamo sentito parlare di Anna Kalinskaya, tennista russa di successo, come “la fidanzata di Jannik Sinner”. Lo stesso accade a 4 atlete italiane durante le Olimpiadi.
Le donne non sono amiche di, mamme, mogli di. O meglio, potrebbero anche esserlo, ma non sono queste le qualità che le definiscono. Succede che a queste Olimpiadi, quattro atlete – schermitrici per la precisione – compiono un’impresa sotto la nostra bandiera. Durante la finale della spada a squadre contro la Francia, le azzurre battono le padrone di casa per 30 a 29 all’overtime, conquistando così la prima medaglia d’oro nella scherma per l’Italia. Non solo, perché Rossella Fiamingo, Alberta Santuccio, Giulia Rizzi e Maria Navarria hanno compiuto un’impresa ancora più grande: hanno vinto il concorso a squadre per la prima volta nella storia italiana delle Olimpiadi. Insomma, grandi meriti e grande soddisfazione.
Ma succede che, subito dopo il grande successo delle atlete italiane, una delle principali testate giornalistiche italiane esce sui social commentando con queste parole la vittoria: “Italia oro nella spada squadre, francesi battute in casa. Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma”. Un anonimato imbarazzante, inadeguato e per nulla gratificante nei confronti delle quattro campionesse. Una vergogna, per lo sport e per il giornalismo. Una caduta di stile, si potrebbe pensare. Ma no, chi mastica abitualmente giornalismo, anche solo come lettore, si rende conto che non si tratta di un “inciampo”. Perché l’utilizzo di un doppio standard nella narrazione di genere nei media – dallo sport alla cronaca – è un fattore, purtroppo, endemico.
Quante volte, parlando di Giorgia Soleri, sono spariti nome e cognome per essere sostituiti da “la fidanzata di Damiano dei Maneskin”? O ancora, di recente, abbiamo sentito parlare di Anna Kalinskaya, tennista russa di successo, come “la fidanzata di Jannik Sinner”. E questi sono soltanto due dei numerosissimi esempi. Ancora, i casi di cronaca: a tutti è capitato di leggere qualche notizia in cui una donna, magari vittima di un incidente sul lavoro, viene descritta prima di tutto con il suo essere madre, moglie o fidanzata. Ma lo stesso non accada per gli uomini, che in questi casi vengono identificati subito con la professione che praticavano.
Quello del linguaggio stereotipato – e di conseguenza discriminatorio – è soltanto uno dei modi in cui, ancora oggi, viene applicato un doppio standard nel racconto nei media. Perché molte volte ci siamo imbattuti in servizi che si focalizzano sull’aspetto fisico della donna, anche quando questo c’entra poco e niente con il tema in questione; o ci siamo imbattuti in articoli in cui ci si sofferma su come erano vestite le donne in casi di abusi e violenza sessuale. “L’amica di Diletta Leotta”, dunque, è soltanto la punta di un iceberg più profondo, di un’abitudine sociale e culturale difficile da eradicare. E la parità di genere resta ancora lontanissima. Anche a parole.