Il giudizio della scienza è secco, inappellabile: la Cop di Belém si è chiusa con un accordo totalmente inadeguato. Per ridurre l’entità dei disastri climatici già in atto bisogna chiudere il rubinetto dell’inquinamento, cioè smettere di bruciare combustibili fossili e di tagliare foreste. E invece le emissioni di gas serra continuano a crescere,mentre nel documento finale della conferenza Onu non si fa nemmeno un accenno alla causa principale del problema, cioè ai suddetti combustibili fossili. Una contraddizione che dal punto di vista di chi, per professione, usa la conoscenza e la razionalità per misurare le nostre azioni collettive non ha spiegazione logica: rinviando la cura abbiamo solo da perdere, la malattia si aggrava e il costo sale.
Il giudizio della politica è più sfumato. C’è chi ha detto che tenere aperta la porta del multilateralismo, nel momento in cui solo la voce delle autarchie e dei demagoghi supera il rumore di fondo, è stato già un mezzo successo. E che l’accordo firmato in Brasile indica un percorso che può portare a migliorare le performance energetiche degli Stati: i correttivi finora adottati hanno già abbassato di un grado le previsioni aumento della temperatura a fine secolo, si tratta di fare la parte che resta.
Ognuno di questi due ragionamenti ha una sua coerenza interna. Ma se non si riesce a incrociarli, se cioè non si riesce a ottenere il consenso sulle politiche necessarie a evitare di arroventare il pianeta, la partita è persa. Dunque conviene provare a trovare una via mediana che incroci i due punti di vista.
La paura che paralizza e la speranza che può sbloccarci
E il punto di partenza non può che essere l’aspetto illogico della nostra reazione collettiva. È esattamente come nel film di Adam McKay, Don’t Look Up: due astronomi scoprono che un asteroide è diretto verso la Terra e l’impatto è vicino, ma la loro denuncia viene trattata dai media come una curiosità: si conquista un piccolo spazio a fatica tra le notizie sul giardinaggio e quelle sulla mondanità. Si organizzano addirittura delle manifestazioni con lo slogan “Non guardare in alto”.
Oggi non è molto diverso. Le probabilità di essere coinvolti in un evento climatico disastroso crescono di giorno in giorno? La desertificazione che avanza costringerà decine di milioni di persone ad abbandonare le loro case e a trasformarsi in profughi? Le zanzare che portano dengue e malaria cominciano a trovare il Mediterraneo più accogliente? Come in Don’t Look Upè il presidente dello Stato più importante a dire che le affermazioni degli scienziati sono sciocchezze.
Ma tutto ciò può avvenire perché la crisi climatica spaventa non solo per i guai in cui siamo già immersi, ma per il terremoto che sta provocando e che fa scricchiolare un sistema produttivo e culturale costruito in più di due secoli. E la paura, quando supera una certa soglia, può creare fantasmi, può mandare in tilt i processi logici.
La speranza come motore della transizione
Dunque il rimedio è la speranza. Un sistema di produzione e di organizzazione sociale in linea con il taglio radicale delle emissioni serra non solo è possibile, ma è anche più conveniente da molti punti di vista. Protegge la nostra salute da inquinanti insidiosi (l’inquinamento atmosferico uccide 50 mila persone all’anno in Italia). Può aumentare i posti di lavoro. Può diventare il driver di politiche di maggior equità sociale. Può migliorare la piacevolezza della nostra vita quotidiana.
Del resto questo non è un processo che si declina al futuro. Sta già avvenendo in alcune città e in alcuni luoghi. E, in maniera macroscopica, nel Paese che grazie a questo sta conquistando la leadership globale del ventunesimo secolo. Pechino ha vinto le prime tappe di questa corsa e l’unica maniera per non essere tagliati fuori e diventare più efficienti e offrire un prodotto più convincente perché condito dalla libertà personale.
Da questo punto di vista la cosa più interessante avvenuta alla Cop di Belem è stata la decisione di un gruppo di Paesi di portare avanti la transizione ecologica e la fuoriuscita dai fossili al di fuori del tavolo ufficiale delle conferenze Onu. Se questa intesa porterà allo sviluppo di dinamiche economiche e finanziarie più rapide ed efficaci di quelle dello schema fossile, il processo accelererà in modo spontaneo, mettendo radici nelle città e nelle regioni in cui già oggi la trasformazione è in corso.
Dunque è vero che mentre la crisi climatica accelera la cura rallenta. Ma non è una maledizione biblica, possiamo cambiare. Basta mostrare che l’alternativa è più conveniente subito. E che è più conveniente per una larga maggioranza.
