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Cronaca

Parte la guerra di Gaza, cadono le maschere

31.10.2023

Gaza strip and Palestine on google maps.

Gli israeliani prendono il rischio di attaccare Gaza via terra. Si apre un altro scenario che spinge tutta la comunità internazionale a schierarsi, ognuno secondo la sua percezione geopolitica degli eventi. Erdogan si rivela ciò che è.

Dopo giorni di incertezza, attacchi aerei e incursioni minori, l’esercito israeliano è entrato nella Striscia e punta su Gaza City. Benché più che giustificata dalla necessità di distruggere i tunnel in cui Hamas vive, costruisce i razzi e prepara gli attacchi, l’offensiva terrestre apre scenari incerti. In termini puramente militari, il combattimento urbano è da sempre il più rischioso. Gli spazi angusti permettono a pochi miliziani di sparare in tutta sicurezza contro uomini e mezzi, che hanno poche vie di fuga. Con tutte le differenze del caso, a partire dall’uso dell’aviazione, Israele corre il rischio di impantanarsi come la Russia a Mariupol e Bakhmut.

Come spesso in Medio Oriente, l’aspetto militare è però il meno importante. La superiorità qualitativa israeliana compensa ampiamente lo svantaggio tattico, come dimostrano le ridottissime perdite subite nelle prime 72 ore a Gaza. La capacità di bloccare le comunicazioni, per esempio, rende molto difficile – per non dire impossibile – agli avversari coordinare manovre e contrattacchi.

Molte più preoccupazioni desta la variabile politica, in particolare la difficoltà di decifrare gli obbiettivi politici di Hamas. O, per dirla più esattamente, se i palestinesi agiscano nell’interesse proprio o di qualche altro Paese arabo. Nel primo caso, la strategia più logica sarebbe il rilascio degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco con apertura contestuale di trattative sotto mediazione internazionale, secondo l’ottica “due popoli, due Stati”. Biden si è già più volte espresso in questo senso, ed è facile pensare che con lui si schiererebbero i Paesi europei oggi al fianco di Israele, nonostante lo scarso amore per Netanyahu e le sue politiche.

Tutt’altro discorso se i palestinesi fossero telecomandati da qualche Paese in cerca di ruoli regionale o globale. La plateale visita della delegazione di Hamas a Mosca, tradizionale sostenitore politico ed economico del terrorismo palestinese, indica solo uno dei possibili burattinai. Altri due sono l’Iran, anch’esso da decenni impegnato contro Israele tramite Hezbollah, e il Qatar, le cui ambizioni sono evidenti da anni nel conflitto in Yemen, nell’intervento in Libia e nel sostegno a Hamas. Proprio per questo, gli aiuti economici sono una potente leva per controllare l’organizzazione terroristica. Non è dunque un caso che i primi ostaggi siano stati liberati con la mediazione del Qatar.

Proprio per realizzare le proprie ambizioni di ampliare la propria sfera di influenza a danno dell’Occidente, tali Paesi non hanno necessariamente interesse a risolvere la crisi. Anzi, la radicalizzazione della crisi e la sua proiezione in Europa e negli USA diventano strumenti essenziali verso lo scontro decisivo tra la visione antidemocratica e quella democratica. Sembra averlo ben capito Recep Erdogan, che nelle ultime ore ha lanciato violenti attacchi verbali contro Israele e l’Occidente.

In quest’ottica, i palestinesi diventano però semplici pedine, le cui rivendicazioni sono strumentali a un diverso tipo di dominio coloniale. A ben guardare, il rischio è, insomma, che il vero scopo sia quello di cambiare burattinaio, anche a costo di rompere tutti i burattini. Al di là degli slogan, una redistribuzione di potere fatta sulla pelle di migliaia di innocenti, non importa se israeliani o palestinesi.

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