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Spettacolo

Perché trovare il colpevole non sempre agevola la giustizia

03.11.2023

Giulio Corso e vanessa Gravina in Testimone d'accusa

Agatha Christie, la scrittrice inglese più tradotta di sempre, si è guadagnata l’appellativo di regina del crimine, sollevando, nella maggior parte dei casi, forti dubbi sull’intero sistema della giustizia, che riguarda anche noi.

Il nome di Agatha Christie, la regina del giallo, scorre come goccia gelida lungo la schiena, e a dispetto di una critica sussiegosa continua ad appassionare lettori e cineasti, perché fenomeno sociologicamente blindato. Il brivido, poi, che pervade quel suo mondo letterario cinico e amaro, quando approda nell’aula di un tribunale, lascia spiazzati chi si sente orfano delle spiegazioni finali rassicuranti di Miss Marple e Hercule Poirot.

Arriva il momento in cui la responsabilità del verdetto finale investe gli spettatori, co-protagonisti in scena. È quanto accade per Testimone d’accusa, ora al Teatro Manzoni di Milano, dove il thriller legale diventa giallo giudiziario, disvelando glorie e miserie di un sistema giuridico complesso, votato alla ricerca della verità, ma troppo spesso impantanato in camarille e effetti depistanti, che, al di là dell’effetto sorpresa proprio del ribaltamento teatrale, dal “common law” imparruccato rimbalza all’immagine paralizzata della nostra giustizia.

Così, tra avvocati, giudici, e testi alla sbarra, nel susseguirsi di continui colpi di scena, il percorso della moglie (diabolica protagonista) di un uomo accusato di omicidio che si trasforma in efficace testimone dell’accusa per motivi chiari solo nella spiazzante conclusione finale, trasmette il destabilizzante senso di ambiguità proprio della Christie. E nel moltiplicare significati e possibili conclusioni, il rigore quasi geometrico di una sceneggiatura che sembra prendere le mosse dal film di Billy Wilder del 1957, induce la regia di Geppy Glejyeses a un’apparente quiete (priva di nerbo?), per innescare poi la decostruzione dell’intera impalcatura del romanzo giallo.

Così, Agatha si fa censore di un campionario di psicologia umana, della sua complessità, insidie e maschere comprese con l’inganno in agguato, facendo leva sul sospetto, quasi come categoria filosofica applicata in ambito letterario. Il percorso di Sir Wilfrid Robarts, a cui Paolo Triestino regala lucida e sagace sensibilità, insieme al collega Mayhew (Antonio Tallura), lasciato il tepore di un caminetto domestico all’ora del the, s’impadronisce del tribunale (nella ricostruzione solenne di Crea), perché possa essere smontata l’accusa d’omicidio di una ricca vedova da parte di Leonard Vole (un serafico Giulio Corso, ingenuo e furbetto al contempo). Con Roamine Heilger, la moglie, perno della vicenda, l’unica a poterlo scagionare. Ma dietro il suo «A volte penso proprio che gli uomini siano stupidi», si cela il dato enigmatico di una donna algida e passionale conscia dell’inganno come padre del sospetto, che Vanessa Gravina declina fascinosamente col suo Dna felino e quella voce dalle sonorità carezzevoli.

Allora, in questo quadro destrutturato dall’assenza della soluzione finale e del trionfo della giustizia, la scrittrice avanza l’ipotesi che la scoperta di un colpevole non ricostruisca l’ordine morale e sociale, alimentando dubbi sull’autenticità relativa. In un universo assai poco rassicurante e consolatorio, attraverso la creazione di atmosfere morbose e caratteri credibili, la delegittimazione della giustizia sembra un atto in itinere, ed esplorare le tematiche dell’inganno e della maschera trasmette la sua cinica visione del mondo: nel momento in cui la menzogna viene scoperta essa non serve a ristabilire la verità, ma solo a constatarne il definitivo occultamento. Che la Christie abbia letto Nietzsche, maestro del sospetto: «La giustizia non è altro che una forma civilizzata di vendetta»?!?

Credito fotografico: Pino Le

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