03.03.2025

Sono una famiglia numerosa di oltre 10mila sostanze. In inglese si definiscono perfluorinated alkylated substances, sostanze perfluoroalchiliche, e nascono negli anni Quaranta come composti chimici di sintesi. Oggi sono molto utilizzati nell’industria, in quanto il loro legame chimico particolarmente stabile tra carbonio e fluoro li rende resistenti all’acqua, al calore e alla corrosione. E si trovano praticamente ovunque: dagli imballaggi per alimenti alle pentole antiaderenti, dai tessuti ai cosmetici, dalle lenti per occhiali e persino in alcuni farmaci.
Insomma, gli Pfas – questo è l’acronimo – grazie alla loro impermeabilità, antiaderenza e capacità di costituire ottimi isolanti elettrici sono ormai dappertutto. Il rovescio della medaglia? Che sono conosciuti anche come “inquinanti eterni”, capaci di accumularsi non solo nell’ambiente ma anche negli organismi viventi, umani compresi. “A rendere queste sostanze così resistenti e così interessanti a livello industriale è il loro legame carbonio-fluoro, ma è anche la cosa che allo stesso tempo le rende preoccupanti, a livello ambientale e non solo” spiega Dania Esposito, responsabile della Sezione Sostanze Pericolose dell’ISPRA.
E prosegue: “Gli Pfas sono noti da anni, e i primi ad essere stati sottoposti all’attenzione per le loro proprietà cancerogene dal regolamento che identifica la pericolosità delle sostanze chimiche sono state le cosiddette sostanze a catena lunga, come l’acido perfluorottanoico, cioè una molecola con otto atomi di carbonio. Negli anni sono state sostituite da sostanze con catena più corta, sempre rientranti nel gruppo, ma che hanno dimostrato comunque una estrema resistenza alla degradazione. Il problema è che erano comunque preoccupanti dal punto di vista tossicologico”.
Gli effetti sull’ambiente e sulla salute
Dunque, sostanze tanto forti e tanto utili quanto potenzialmente pericolose. Infatti, ciascun gruppo di Pfas, come spiega l’esperta, ha la sua specificità, e può essere più o meno accumulabile nell’ambiente e più o meno tossico.
“In prima battuta costituiscono un problema per l’ambiente: sono definiti inquinanti eterni perché sono estremamente resistenti anche alla biodegradazione e una volta che entrano nell’ambiente ci rimangono”, continua Esposito. “Inoltre, ci sono dei casi in cui le molecole più corte possono accumularsi nel biota e spostarsi da un comparto ambientale all’altro. In altri termini, rimangono nell’ambiente a lungo termine e non è possibile stimare gli effetti sul lungo periodo. Anzi, in alcuni casi non è possibile nemmeno dimostrare la tossicità”.
Ma ci sono pericoli anche per l’uomo? La risposta, naturalmente, è sì, perché l’ambiente non può essere a priori esente da contaminazioni, sia a ridosso della fonte inquinante ma anche in zone più remote: “Queste sostanze hanno una mobilità a lungo raggio, il che le rende davvero preoccupanti. Talvolta penetrano nelle falde acquifere e nel suolo, e dunque l’uomo viene esposto attraverso l’ambiente” spiega Esposito. “Alcuni Pfas si sono dimostrati tossici per la riproduzione, per il feto o anche per il sistema endocrino”.
L’esempio della Francia
Proprio in ottica di contrastare la diffusione di queste sostanze, la Francia, per prima in Europa, ha compiuto un passo importante: con 231 voti favorevoli e 51 contrari, il Parlamento francese ha approvato una legge che dal 2026 vieterà la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione e l’immissione su mercato di Pfas.
Nello specifico, la normativa riguarda tre categorie di beni: i cosmetici, i prodotti tessili per l’abbigliamento – calzature comprese – e le cere per gli sport invernali, escludendo soltanto alcuni tessuti industriali e quelli “necessari per usi essenziali”.
Ma c’è di più: la legge ha infatti stabilito che lo scarico di Pfas nelle acque venga incluso tra le fonti di inquinamento soggette a una tassazione specifica. Insomma, chi inquina paga.
Le valutazioni europee e le alternative agli Pfas
“La riduzione dell’immissione dei Pfas nell’ambiente è lo strumento che il Regolamento REACH – la normativa europea che gestisce e regolamenta le sostanze chimiche messe in commercio – prevede per ridurre il rischio per l’uomo e l’ambiente” dice Esposito.
Ma questa riduzione non appare immediata. Le proposte di restrizioni d’uso, infatti, devono essere attentamente valutate dall’ente europeo competente, cioè l’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche: “Laddove gli Pfas hanno un uso essenziale deve essere valutata la proposta di una deroga: bisogna dare alle industrie il tempo di innovarsi. Inoltre, bisogna prestare attenzione alle alternative, che devono essere altrettanto performanti senza però essere preoccupanti”, continua Dania Esposito. “Molti Pfas sono già vietati a livello internazionale, ma sono necessarie queste valutazioni e ci vogliono anni. Le proposte sono oggetto di consultazione pubblica, il che vuol dire che anche la società civile è stata invitata a fornire dati e informazioni per valutare ogni aspetto”.
Secondo l’esperta, infatti, prima di vietare alcuni Pfas, come quelli che per esempio vengono impiegati nella schiuma antincendio, negli indumenti ignifughi o nei device medici, è fondamentale assicurarsi che non venga compromessa l’efficacia di questi prodotti essenziali.
“Per ciascuna proposta di restrizione d’uso, è coinvolto il comitato di valutazione dei rischi che ha il compito di fornire dei pareri scientifici, perché ci sono dei polimeri alternativi, come la fibra di vetro o il pvc. Ma le alternative non è detto che coprano tutti gli usi, e in più vanno valutati i rischi: non si sostituire una sostanza tossica con una sì performante ma altrettanto pericolosa”, conclude Esposito.
Per questo motivo, ad oggi, alcune categorie sono soggette a restrizioni, altre sono messe più o meno totalmente al bando e altre prevedono solo limitazioni. Insomma, è una valutazione di bilancio tra rischi e benefici, e per arrivare al dunque occorre tempo.