Le sostanze per- e polifluoroalchiliche, più comunemente note come Pfas, sono al centro di una delle emergenze ambientali più rilevanti nel corso degli ultimi anni. Definite anche “forever chemicals” per la loro estrema persistenza, nel tempo hanno trovato applicazione praticamente ovunque: nei settori tessili, industriali, tecnologici e persino alimentari. Sono resistenti all’acqua, ai grassi e al calore. Proprio queste proprietà che le rendono così versatili sono anche la causa della loro pericolosità: i legami carbonio-fluori che le caratterizzano sono talmente stabili da resistere ai normali processi di degradazione ambientale. E così si accumulano nelle acque, nei suoli e negli organismi viventi.
Dal canto suo, la Commissione europea ha ribadito più volte la necessità di regolamentare con maggior rigore queste sostanze, e – proprio per questo – le ha inserite nelle liste di contaminanti da monitorare e ha proposto limiti più stringenti. Le evidenze scientifiche, infatti, confermano i rischi per la salute: alcuni Pfas sono associati a disfunzioni ormonali, problemi di fertilità, alterazioni metaboliche, interferenze nello sviluppo fetale e aumento del rischio di alcune forme tumorali. Un quadro, questo, che ha spinto diversi Paesi europei a rafforzare i sistemi di sorveglianza e a investire nella ricerca di tecnologie di bonifica. Come la Francia, che ha approvato una legge che dal 2026 vieterà i Pfas, dalla fabbricazione all’esportazione, dall’importazione all’immissione sul mercato.
Il decreto del Mase
Cosa sta facendo l’Italia? Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha pubblicato lo scorso 7 agosto un decreto attuativo delle misure anti-inquinamento da Pfas, previsto dalla legge di bilancio 2025. Nello specifico, il provvedimento disciplina l’utilizzo del Fondo destinato all’attività di monitoraggio, studio e ricerca per il triennio 2025-2027, con una dotazione complessiva di 2,5 milioni di euro: 500 mila per il 2025, un milione per il 2026 e un milione per il 2027.
In che cosa consiste? Il decreto individua gli enti che avranno il compito di svolgere le attività di ricerca e monitoraggio: l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr(Cnr-Irsa), l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e l’Enea, in collaborazione con il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (Snpa). Istituzioni, queste, che saranno chiamate a lavorare in sinergia per definire l’elenco delle sostanze da monitorare, i parametri di riferimento e le matrici ambientali da indagare, dalle acque superficiali e sotterranee fino ai suoli e agli alimenti.
Uno degli obiettivi centrali, poi, è la standardizzazione delle metodiche analitiche e dei requisiti minimi di prestazione, così da garantire dati confrontabili e affidabili a livello nazionale. Inoltre, è prevista la creazione di una piattaforma per la raccolta e la condivisione delle informazioni disponibili, utile a costruire un quadro aggiornato e accessibile della diffusione dei Pfas in Italia.
I Pfas in Italia
Nel nostro Paese, però, il tema Pfas non è nuovo. Il caso più noto è quello del Veneto, dove nelle province di Vicenza, Verona e Padova è stata riscontrata una delle contaminazioni più gravi d’Europa, legata alle attività industriali della e Miteni di Trissino. Qui, le falde acquifere sono state compromesse per decenni e migliaia di persone sono state esposte attraverso l’acqua potabile, conseguenze sanitarie tutt’ora oggetto di studi epidemiologici. Ma non era un caso isolato.
Anche ad Alessandria, nell’area di Spinetta Marengo, diverse indagini hanno accertato la presenza di Pfas in acque e alimenti. O in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna sono stati segnalati superamenti in punti di captazione delle acque. In particolare, un’indagine condotta da Greenpeace insieme con Ispra, lascia emergere un quadro nazionale dei controlli disomogeneo: alcune Regioni hanno reti di monitoraggio consolidate, altre non hanno effettuato campionamenti sistematici fino a tempi recenti. Il che, significa che in molte aree del paese non è ancora possibile avere una mappatura reale dell’esposizione della popolazione.
Dunque, in questo contesto, il decreto Mase prova ad accelerare perché per la prima volta viene istituito un sistema coordinato di monitoraggio e ricerca a livello nazionale. tuttavia, il finanziamento rischia di non essere sufficiente rispetto alla grandezza del problema: analizzare in maniera capillare le acque, i suoli e gli alimenti richiede infatti risorse consistenti, competenze diffuse e laboratori attrezzati. Un altro nodo, poi, riguarda la necessità di fissare limiti normativi chiari e uniformi per tutti gli PFAS, inclusi quelli di nuova generazione.
Sul fronte della bonifica ambientale, le tecnologie attualmente disponibili – come il carbone attivo o i processi di ossidazione avanzata – sono sì efficaci, ma molto costose e difficilmente applicabili su larga scala senza investimento pubblico. E proprio in quest’ottica, la ricerca di soluzioni innovative è parte integrante del decreto.
La sfida, dunque, è trasformare questa cornice normativa in azioni concrete, rapide e capillari. Perché i “forever chemicals”, come dice il loro stesso nome, non scompaiono da soli.