Per secoli la Pianura Padana è stata un intreccio di campi, alberi e vigneti, un paesaggio modellato dalla coltura promiscua, il sistema agroforestale che univa produttività e biodiversità. Oggi, di quella trama complessa resta quasi nulla: in meno di un secolo le superfici agroforestali si sono ridotte del 97%, sostituite da monocolture intensive e urbanizzazione. Eppure proprio quella pratica, ormai quasi scomparsa, potrebbe tornare protagonista nella lotta al cambiamento climatico, come dimostra uno studio congiunto di Università di Milano e Mit pubblicato su Scientific Reports.
Analizzando dati storici (1929–2024) e utilizzando modelli di simulazione, i ricercatori hanno stimato che i sistemi silvoarabili tradizionali – come la coltura promiscua – erano in grado di immagazzinare mediamente 75 tonnellate di carbonio per ettaro, con punte oltre le 100. Se reintrodotti su larga scala, potrebbero aumentare del 12% la capacità di sequestro del carbonio atmosferico dell’intera Pianura Padana, un risultato paragonabile a quello di una vasta riforestazione che però richiederebbe di convertire in bosco un quarto dei terreni agricoli esistenti.
I vantaggi, secondo i ricercatori, andrebbero oltre la riduzione della CO₂. Come spiega Filippo Brandolini, coordinatore dello studio e Marie Curie Fellow tra l’Università di Milano e il Mit: “In questo contesto così critico, restaurare la coltura promiscua non solo aumenterebbe la capacità di stoccaggio del carbonio atmosferico, ma apporterebbe anche molteplici benefici ambientali tipici dei sistemi agroforestali: migliorare la fertilità del suolo, ridurre i fenomeni erosivi, regolare i cicli idrici, favorire la biodiversità vegetale e animale, sostenere gli impollinatori, limitare l’impatto dei parassiti, migliorare la qualità dell’aria e contribuire alla regolazione del microclima rurale”.
Non solo agricoltura: le altre cause dell’inquinamento padano
Non si tratta però di una soluzione che, da sola, può risolvere i problemi ambientali della Pianura Padana, dove l’inquinamento atmosferico è il risultato di molteplici fattori: non solo attività agricole, ma anche traffico veicolare, riscaldamento domestico, industria e zootecnia. La reintroduzione della coltura promiscua va quindi letta come parte di una strategia integrata di mitigazione, che coniuga sostenibilità produttiva e tutela ambientale.
Rimettere radici per respirare
Lo studio mostra anche come, già tra il 1929 e il 1954, l’abbandono dei sistemi agroforestali sia stato compensato solo in parte dalla riforestazione spontanea delle aree collinari. Oggi, invece, la perdita di diversità paesaggistica e biologica ha lasciato la Pianura Padana più vulnerabile agli effetti climatici estremi: ondate di calore, siccità, erosione dei suoli, perdita di habitat naturali e inquinamento.
Il recupero dei paesaggi storici, sottolineano gli autori, non è solo una scelta ecologica, ma anche culturale. La coltura promiscua rappresentava infatti un “codice del paesaggio” attraverso cui le comunità rurali esprimevano identità e conoscenza del territorio. La sua scomparsa ha significato non solo perdita di biodiversità, ma anche una frattura nella trasmissione del sapere agricolo tradizionale.
Restituire spazio a questi sistemi non richiede di rinunciare alla produttività: i dati storici indicano che le rese di grano nel 1929 erano equivalenti a quelle delle monocolture. A cambiare, semmai, è il bilancio ecologico. “Un sistema agroforestale ben gestito è in grado di catturare carbonio, proteggere il suolo e produrre cibo”, osserva Brandolini.
In una Pianura Padana che fatica a respirare, la sfida è dunque anche reinserire gli alberi nei campi, non solo per nostalgia del paesaggio perduto. Un ritorno alle radici, nel senso più letterale del termine.