08.03.2024
Si vive nella normalizzazione della guerra, una condizione che, filosoficamente, l’Occidente aveva escluso di rivivere a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anziché cogliere le straordinarie opportunità offerte a partire dalla fine della guerra fredda e dalla caduta del Muro di Berlino, il mondo ricade ancora nella stessa trappola.
In tempi storici come questi, sottoposti alla centrifuga di rapidi cambiamenti, anche la nozione di guerra ha subito una mutazione. Lenin diceva: «Ci sono decenni in cui non avviene nulla e settimane in cui accadono decenni». Al tempo dei Romani ci si affrontava con la spada, nel Rinascimento con l’archibugio, poi, mediante artiglieria e dispositivi chimici durante il primo conflitto mondiale per arrivare, oggi, ai carri armati, ai droni e ai computer nell’era della cyberwar.
Sono cambiate le modalità, all’insegna di efficacia dell’azione, ma i principî fondamentali della guerra sono rimasti invariati. L’obiettivo di assoggettare la potenza dell’avversario, pur potendo disporre di mezzi più sofisticati offerti dalla tecnologia, rimane incentrato sul fattore umano (legato a libero arbitrio d’offendere e all’ utilizzo delle armi stesse). Con la bomba atomica (e relativa minaccia come deterrente) a far da discrimine nel ruolo delle grandi potenze. E se il Diritto internazionale rifiuta l’uso della violenza come mezzo per la risoluzione delle controversie tra gli Stati (compresa la nostra Costituzione, art.11), facendo salvo, ovviamente, il diritto di difendersi, sembra evidente che filosoficamente l’Occidente abbia rifiutato la guerra a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Altrove, però, questo non è avvenuto, e la risoluzione (solo apparente) delle dispute è stata affidata all’uso delle armi, che vieppiù si conferma come fenomeno sociale ineliminabile, ritenuto indispensabile, scevro da troppe domande, e perché (fondamentalmente, dalla notte dei tempi) inscindibile dalla natura umana. «Oggi la guerra sta diventando “normale”. Siamo, cioè, sempre più disposti a considerarla come una realtà ineliminabile e diffusa, mentre la pace sarebbe un’eccezione» ammette Agostino Giovagnoli, professore di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano. Così il nuovo ordine mondiale in balìa di spinte centripete impresse dalla forza delle armi per qualsivoglia rivendicazione (territoriale o economica), si impiglia nel ginepraio di motivazioni etniche, religiose, politiche o civili (vere o presunte tali), supportate dall’intervento delle potenze globali di turno per presidiare il territorio e rimarcare il proprio status. Considerando il conflitto come test per autodefinirsi (ad absurdum, ma vero). Proprio mentre, il novero dei Paesi che garantiscono lo stato di diritto, la competizione politica e le libertà fondamentali, si assottiglia. La storia dell’umanità consiste ancora nella contrapposizione tra inclusione ed esclusione, tra un “noi” (come parte di un’entità) ed un “loro” esterno al gruppo: potenza dei pronomi, secondo Zygmunt Baumann, che ostacola la dimensione cosmopolita in cui siamo immersi, impedendo di relazionarci con il prossimo (da qui, la guerra). Con un odio strisciante, terreno di coltura di una sfida di tutti contro tutti, cardine di questa prassi contemporanea fondata su competizione e antagonismo finalizzato al profitto.
E con l’aggiunta della sponda sodale della Rete dei social network, veicolo d’una verità emotiva, cangiante e frutto di misconoscenza, ma base di consenso imprescindibile per i leader, condizionati dall’umoralità delle piazze, che ha trasformato la diplomazia internazionale in uno sport quotidiano, a portata di chiunque abbia uno smartphone. La Realpolitik con la pace vincolata a concessioni, vada pure in un cantuccio, ormai (ci) siamo abituati a una sorta di comodo e tacito “stand-by”! Mentre la scia di sangue s’allunga