Il Meeting di Rimini 2025 ha scelto per titolo (e per meta-tema) una citazione del poeta Thomas S. Eliot: “Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”. I significati della scelta, esplicitati nel manifesto del Meeting, sono legati al “desiderio di costruire insieme luoghi in cui condividere la ricerca e l’esperienza di ciò che è vero, buono e giusto… in risposta ai molti deserti della contemporaneità: la solitudine esistenziale, la disperazione, la rassegnazione, il cinismo, la violenza, l’indifferenza”.
Al di là degli intenti encomiabili dichiarati nel manifesto, qui mi preme sottolineare il ricorso ad alcuni termini-metafora (“mattoni”, “costruzione”, “deserto”), tipici della nostra tradizione culturale “costruzionista”, che tradiscono almeno due convinzioni errate:
– che il vuoto (il “deserto”) sia sempre una mancanza da colmare, un non-ancora-pieno;
– che il pieno sia tale solo se il luogo è vissuto e plasmato da esseri umani. Le altre forme viventi non trasformano un vuoto in un pieno. Ci sono ma non realmente. Il loro abitare è uno pseudo-abitare (salvo quando lamentiamo danni, li scopriamo concretamente).
“È tutto deserto e spreco di legname” disse un deputato statunitense alla proposta di sottrarre la valle di Yosemite alle industrie e farne un’area protetta. Cioè lasciarla “deserta”.
Ben oltre la semplice questione linguistica, questa idea ci ha portato – e ci porta – ad agire antiecologicamente, a consumare suolo (vedasi Paolo Pileri, “Dalla parte del suolo”) e modificare habitat fino a farci raggiungere numeri di occupazione territoriale piuttosto spaventosi, che rappresentano il vero senso del concetto di Antropocene: l’onnipresenza di antropos, in una sorta di solitudine di specie che spesso diventa anche solitudine sociale.
Una terra desolata, potremmo dire proprio con Thomas Eliot, pensando a molte periferie urbane oppure (a proposito di metafore) alla costruzione di certe “cattedrali nel deserto” di cui la nostra storia, anche recente, è piena.
E in effetti, una buona domanda da porsi è se il mondo disseminato di cemento ci stia aiutando davvero a sconfiggere “la solitudine esistenziale, la disperazione, la rassegnazione” e gli altri “deserti della contemporaneità” citati nel manifesto, o piuttosto li stia alimentando, inasprendo. Se stia favorendo un’economia intelligente, sana, duratura. Se cioè gli obiettivi encomiabili del Meeting 2025 siano raggiungibili attraverso questa bulimia dell’abitare, del conquistare, del consumare, sacrificando spazi vuoti (aree naturali) che proprio nel loro sottrarsi al consumo diventano significativi.
Luoghi “deserti” preziosi che rappresentano valore in chiave ecologica, materiale, culturale e persino politica. Luoghi che suggeriscono di allargare il quadro dei valori a ciò che oggi consideriamo dis-valori, rendendo più ricche, e non più povere, le nostre vite. Tra questi, proprio il vuoto. Spazio, assenze, tempo da dedicare a cose importanti.
In termini generali, le difficoltà della transizione ecologica sono dovute al fatto che l’intero nostro sistema è progettato in modo non-ecologico. Economia, società, politica, pratiche, abitudini, teorie: tutto è stato edificato, nel corso dei secoli, con quel genere di mattoni. E così il linguaggio, così le metafore.
Alla luce di questo, ogni nostra pretesa di trasformare la realtà dall’oggi al domani, tanto più in tempi drammatici come quelli in atto, è a sua volta una “metafora” errata. Ciò, tuttavia, nulla toglie all’impegno che occorre metterci, alla fiducia che occorre mantenere e ai miglioramenti che dobbiamo provare a produrre, quotidianamente. Agire meglio, pensare meglio, analizzare meglio la realtà, relazionarci meglio, parlare meglio. Riflettere sulle frasi fatte che usiamo, sugli slogan che scegliamo. È molto faticoso, certo, ma tant’è. Ogni giorno, per usare un’altra metafora, è come attraversare il deserto