Le operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza rappresentano uno dei conflitti armati più distruttivi del XXI secolo, non solo per le conseguenze umane e geopolitiche, ma anche per l’impatto ambientale e climatico. Sono 8, nelle sole ultime 24 ore, i palestinesi morti per le conseguenze della fame. Senza contare il numero che ogni giorno aumenta di civili che muoiono mentre sono in fila in attesa di ricevere aiuti.
Intanto, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha convocato per questa sera alle 19:00 (le 18:00 ora italiana) una riunione sulla continuazione della guerra nella Striscia di Gaza. Vi prenderanno parte ministri e capi dell’apparato di difesa, tra cui il capo di stato maggiore Eyal Zamir, il ministro della Difesa Israel Katz e il ministro degli Affari strategici e principale consigliere del premier Ron Dermer.
Il conflitto in corso nella Striscia di Gaza, cominciato nell’ottobre 2023, ha già causato devastazioni umane e materiali di proporzioni storiche. Le immagini della distruzione urbana, dei civili sfollati e delle infrastrutture ridotte in macerie hanno fatto il giro del mondo. Eppure, c’è un altro aspetto, meno visibile ma altrettanto drammatico, che merita attenzione: l’impatto ambientale e climatico della guerra.
La stima scientifica dell’entità del danno
Ad aprile 2025, un team internazionale di ricercatori ha pubblicato sulla piattaforma accademica open access Social Science Research Network lo studio War on the Climate. È il primo lavoro scientifico a stimare con precisione le emissioni di gas serra prodotte dalla guerra in corso a Gaza, tenendo conto non solo delle azioni militari dirette, ma anche di quelle in Libano, Iran e Yemen, collegate al medesimo scenario di escalation.
L’analisi ha raccolto un dato impressionante e inequivocabile: nei primi quindici mesi del conflitto, le emissioni climalteranti legate alle operazioni militari israeliane hanno superato quelle annuali di almeno sedici Paesi a basse emissioni. Se si considera anche l’infrastruttura sotterranea costruita da Hamas e la barriera di sicurezza realizzata da Israele per isolare la Striscia, il bilancio carbonico risulta superiore a quello di quarantuno Stati sovrani.
Ma non finisce qui. La distruzione sistematica delle infrastrutture energetiche di Gaza ha aggravato la crisi ambientale. Gran parte della produzione locale di elettricità, basata su impianti solari, è andata distrutta. La popolazione è stata costretta a fare affidamento su generatori a diesel, noti per le loro alte emissioni e per l’impatto sanitario negativo. Questo ritorno forzato a fonti energetiche inquinanti ha esposto centinaia di migliaia di persone a un’aria carica di particolato e sostanze tossiche, aumentando il rischio di malattie respiratorie e cardiovascolari.
Distrutto l’80% degli alberi
Le conseguenze ecologiche si estendono anche al suolo, al mare e alle falde acquifere. Oggi, ogni giorno, circa 130.000 metri cubi di acque reflue non trattate vengono scaricati nel Mediterraneo, aggravando l’inquinamento marino lungo la costa e rappresentando una minaccia diretta per la salute pubblica. Il suolo, già povero, è contaminato da detriti bellici, polveri tossiche e metalli pesanti. La copertura arborea, fondamentale per la qualità dell’aria e per l’ancoraggio del terreno, è stata spazzata via: nel nord della Striscia si stima che l’80% degli alberi sia stato distrutto dall’inizio del 2024.
La crisi idrica è forse la più drammatica. Oltre l’85% delle infrastrutture per l’approvvigionamento e la depurazione dell’acqua è stato distrutto o danneggiato. L’acquifero di Gaza, principale fonte di acqua dolce per la popolazione, è oggi inutilizzabile: il 97% della sua acqua non è potabile a causa dell’elevata salinità e della contaminazione batterica. In alcune zone, come nel nord o a Rafah, la disponibilità d’acqua è scesa sotto i 6 litri pro capite al giorno: meno del necessario per un singolo scarico di toilette. Solo il 40% degli impianti per l’acqua potabile è ancora operativo, e molti non hanno carburante per funzionare. A peggiorare la situazione, la chiusura quasi totale dei corridoi umanitari ha reso l’accesso all’acqua una questione di vita o di morte quotidiana.
L’acqua contaminata ha portato con sé una nuova ondata di malattie. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i casi di diarrea, epatite A, infezioni cutanee e respiratorie sono aumentati di oltre 25 volte rispetto al periodo pre-bellico. La poliomielite, e altri virus fecali, sono stati rilevati nelle acque reflue. I rifiuti non raccolti, le fognature esposte e le piogge hanno creato zone estese di degrado ambientale e rischio epidemico. Gaza oggi è una ferita aperta, dove la crisi ecologica, climatica e sanitaria si fondono in un’unica catastrofe umana.
L’impronta degli eserciti
La guerra in corso a Gaza è dunque anche una guerra al clima. La sua impronta ecologica è imponente e sistemica. Coinvolge tutti gli stadi del ciclo bellico: dalla preparazione alla ricostruzione, passando per le fasi più violente del conflitto. Non si tratta solo di missili e bombardamenti. Prima ancora dello scoppio della guerra, infatti, l’attività edilizia militare aveva già contribuito in maniera significativa alle emissioni. Hamas ha costruito negli anni una fitta rete di tunnel sotterranei, mentre Israele ha eretto un’infrastruttura difensiva in cemento e acciaio, il cosiddetto “Muro di ferro”, per sigillare i confini della Striscia. Entrambe le operazioni hanno richiesto materiali da costruzione altamente inquinanti. La produzione di cemento, per esempio, è tra le maggiori fonti industriali di CO₂ al mondo, e l’acciaio non è da meno.
Gli eserciti non forniscono dati
Durante le fasi attive del conflitto, le emissioni si moltiplicano. L’utilizzo di veicoli blindati, carri armati, artiglieria pesante e soprattutto aerei da combattimento come gli F-16 e F-35 comporta un consumo straordinario di carburanti fossili. Ogni missione aerea può bruciare migliaia di litri di cherosene, generando un carico emissivo che supera quello di un’auto civile in un intero anno. Quando queste missioni si ripetono quotidianamente, per mesi, il risultato è una tempesta invisibile di gas serra. Il conflitto diventa così una fabbrica costante di anidride carbonica.
Anche il trasporto di armamenti e le operazioni logistiche contribuiscono in modo significativo. Gli aiuti militari statunitensi, per esempio, vengono spediti per via aerea e marittima, due modalità ad alta intensità carbonica. Ogni tonnellata di materiale trasportato, ogni volo cargo, ogni nave da guerra accende un altro fuoco nel sistema climatico globale. Perfino il trasporto degli aiuti umanitari, pur essendo essenziale per la sopravvivenza dei civili, comporta inevitabilmente un peso ambientale, soprattutto in un territorio devastato dove tutto è divenuto inefficiente, lento, frammentario.
Tutto ciò avviene in un contesto internazionale in cui le emissioni militari continuano a non essere soggette a obblighi di rendicontazione. La Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc) lascia agli Stati la facoltà di decidere se includere o meno le attività militari nei loro inventari emissivi. La maggior parte degli eserciti, incluso quello israeliano, non fornisce dati trasparenti o disaggregati. Questo vuoto normativo è tanto più grave se si considera che le guerre, come dimostra Gaza, non sono solo tragedie umane: sono anche acceleratori climatici.
Da anni, attivisti, ricercatori e funzionari delle Nazioni Unite chiedono che il settore militare venga incluso nei meccanismi di monitoraggio e negli obiettivi di riduzione delle emissioni. Lo studio “War on the Climate” propone un passo avanti importante: un nuovo standard metodologico, chiamato Scope 3+, che consenta di misurare anche le emissioni indirette di un conflitto, dalla logistica alla ricostruzione. È un tentativo di rendere visibile l’invisibile, di dare un volto e un numero all’inquinamento che le guerre lasciano dietro di sé.