31.10.2023
“Venghi”, “vada”, “dichi”, Paolo Villaggio ha raccontato gli italiani con le loro maschere quotidiane, in un affresco cinico e feroce della classe media degli anni ’70 e ’80, come un trattato di sociologia che anche oggi può aiutarci a decifrare la società.
Da saga a sagra del paradosso. Villaggio Fantozzi, per un giorno, ha trasformato San Felice al Panaro nella bassa modenese, da vittima di un rovinoso terremoto (2012) a luogo di rievocazione storica e raduno. Ti ritrovi insieme a migliaia di persone ad inseguire i personaggi delle pellicole e la riproduzione fedele dei set. 200 attori e figuranti, vecchi e giovani sotto la Rocca per i tableaux vivant, e l’orchestrina del maestro Canello che sposta all’indietro le lancette del cenone di Capodanno. Ogni passo, una citazione. Sali i gradoni della scalinata e aspetti la carrozzina della corazzata Potëmkin (1925) di Ėjzenštejin, per ascoltare nel cineforum d’essai del Professor Guidobaldo Maria Riccardelli «Per me è una c. pazzesca!» (evvai con la coprofilia), da parte del rag. Ugo Fantozzi, inizialmente assunto come «spugnetta per francobolli» nella megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica (riprodotta, qui, nell’ex fabbrica Del Monte) per poi essere appeso come parafulmine al tetto, nel secondo “tragico” film (regia genialoide di Luciano Salce) della fortunatissima saga che ha finito per identificare Paolo Villaggio nel personaggio da lui creato e viceversa. L’iperbole galoppa. C’è la focosa signorina Silvani, il geometra Carboni ruffiano doc, il miopissimo rag. Filini. Ma ad inseguire i cloni ed i sosia dei personaggi, sotto la coltre ilare, cogli pure la grandezza dell’epopea fantozziana e quel suo tentativo (palese) di inseminare riflessioni sulla trasformazione del lavoro nell’orizzonte antropologico e sociale fino ai giorni nostri.
Lui, tapino, si dibatte per socializzare con i suoi colleghi anche in gare su bicicletta pur senza sellino, fuoriuscendo come travet gogoliano da un seminterrato, in contrasto con l’ufficio del megadirettore galattico Duca Conte Balabam, affabile ma crudele, solito ad ospitare poltrone in pelle umana dei cattivi impiegati ed un acquario per far nuotare quelli servili. La società piramidale della ditta che disciplina la vita dei dipendenti è scomparsa, certo, a favore di una distanza assottigliatasi tra vertici e maestranze, come pure il dato della mobilità, il tragitto casa-lavoro, che obbligava (allora, anni ’70) Fantozzi ad inseguire l’autobus sulla Tiburtina per restarvi spiaccicato, dopo aver polverizzato colazione-caffè-igiene personale, a vantaggio, oggi, di car sharing o smart working iperconnesso.
E mentre 50 ciclisti in maglia di lana partecipano alla riedizione della Coppa Cobram (visconte, già lecchino), lungo le strade con finestre incorniciate dalle citazioni dei film, una torma di Bianchine cinge il campo da tennis del «Batti lei», con neo-coniugazione verbale e il lessico stravolto (ormai d’uso comune) della disperazione e del sopruso di chi, subalterno, sopravvive rinunciando al successo economico, che traducono l’etica del servilismo nei confronti del potente di sempre. La Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare sprizza distacco. Venghi, vadi, dichi: Paolo-Ugo diventa gag da cartoon. Ma vederlo perdente senza speranza, vittima imbelle della società, davanti alla Tv in mutande e canottiera, frittatone di cipolle con birra gelata e rutto libero incipiente, adombrando tracce di dignità, sopportazione, genuino ribellismo, finisce per produrre un effetto catartico. Villaggio, interprete del malessere latente attraverso una satira tragicamente comica, ci aveva invitato a vestire i panni di Fantozzi, per cogliere le esclusioni sociali, e forse non ce ne siamo accorti. Salivazione azzerata, la nostra.
Credito fotografico: Wikimedia Commons