02.05.2023
I tempi biblici nelle liste d’attesa in regime pubblico ospedaliero spingono sempre più alla mobilità per ricevere cure rapide e adeguate, esistono i rimedi?
È stato 45 anni fa. Ma a quelli della nostra età quel 28 dicembre del 1978 sembra ieri, quando sulla Gazzetta Ufficiale n. 833, viene ufficializzata la promulgazione del Servizio Sanitario Nazionale. Universalità, Uguaglianza, Equità sono i 3 principi ispiratori, figli di quell’art. 32 della Costituzione, che sancisce la tutela della salute come diritto dell’individuo e garantisce le cure gratuite agli indigenti. In 45 anni il SSN si è rimangiato quasi tutto. Tanto che oggi se ne teme lo sfascio e se ne reclama un ritorno alla normalità. Che onestamente oggi appare complicato. Sette sono le criticità dagli effetti a catena:
le liste d’attesa;
la mancata innovatività;
le diseguaglianze;
la migrazione sanitaria;
la spesa out-of-pocket (di tasca nostra);
la rinuncia alle cure;
la ridotta aspettativa di vita.
Il 72% dei nostri rilievi riguarda le liste d’attesa in regime pubblico ospedaliero.
Pensate, 720 giorni per una mammografia (!), 375 per una ecografia o Tac, o una visita diabetologica, o anche un intervento cardiologico od ortopedico. Questi, e quelli che seguono, sono dati Istat, Eurostat e Cittadinanza Attiva, elaborati dalla Fondazione Gimbe. Ma le segnalazioni su inefficienze ed inadempienze non si contano. Il 51%, ad esempio, è sulle difficoltà a contattare un Cup.
Nel 2017 l’allora ministro Beatrice Lorenzin, premier Gentiloni, annuncia con enfasi la titanica impresa di aggiornamento dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, laddove in 15 anni avevano fallito i suoi predecessori Livia Turco e Renato Balduzzi. Ma è solo un’illusione. Il decreto tariffe non è mai uscito, la specialistica ambulatoriale era consentita solo nelle Regioni non in Piano di Rientro, e quindi le innovazioni inaccessibili a tutti. È facile per la politica fare annunci quando, alla verifica dei fatti, quel ministro e quel governo non ci sono più, neanche nei nostri ricordi.
I Lea e la migrazione sanitaria diventano così le punte dell’ISI, l’Iceberg Sanitario Italiano. Neologismo ed acronimo inventato per ischerzo, ma diventati poi drammaticamente reali. Perché? Perché acuiscono e divaricano le diseguaglianze tra Nord, Centro e Sud del Paese, il contrario di come dovrebbe essere. E così Emilia, Toscana, Veneto, Piemonte e Lombardia diventano le Regioni in regola con gli adempimenti Lea, il Nord-Est ed il Centro si salvano nel limbo, mentre tutto il Sud (con Valle d’Aosta e Bolzano) resta nel rosso dell’inadempienza. Fa di peggio l’altro marker, la mobilità o migrazione sanitaria. Come denuncia drammaticamente anche la grafica. Dalla Prov. Autonoma di Bolzano alla Campania il saldo è un rosseggiare crescente. È il colore dei milioni che queste Regioni sborsano per i propri cittadini che scelgono di farsi curare nelle 5 Regioni dove pensano che sia meglio. La Campania arriva ad erogare fino a quasi 250 mln di euro all’anno ad Emilia e Lombardia soprattutto, e poi Veneto ed anche al Molise, dove Neuromed è leader in Italia per le malattie neurodegenerative. La speranza è che l’Iceberg torni ad essere un Servizio.