06.07.2024
Vacanze scolastiche, un viaggio interminabile senza senso nel nostro Paese? Il periodo estivo italiano è praticamente doppio rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e Norvegia: accresce le disuguaglianze, acuendo il gap di apprendimento fra allievi benestanti e quelli meno. Cosa insegnano le vacanze che facciamo fare ai nostri figli?
Per comprendere le situazioni occorre studiare, tanto per restare in tema. Quando la scuola finisce, si apre quel limbo d’indeterminatezza rappresentato dalle vacanze. Agognate, inseguite da giovani, giovanissimi (e non solo) dopo il lungo periodo di studio lasciano spazio ad un lasso di tempo (consistente) per eliminare stanchezza e stress.
L’animus polemico si rianima: vacanze molto lunghe, limite o opportunità? L’aspetto del riposo e la maggiore disponibilità di un tempo dedicato alla libertà del fare senza vincoli, s’incanala in quella sorta di viaggio interminabile che dura quattordici settimane, dalla chiusura dei cancelli a giugno alla riapertura settembrina. La scuola va in ferie e secondo il rapporto Eurydice, la rete europea di informazione sull’istruzione, basata sui dati di 37 Paesi che partecipano al programma dell’UE Erasmus+, l’Italia è all’avanguardia per il numero di giorni di scuola (contrariamente alla vulgata), ma è anche al primo posto in Europa per i giorni consecutivi di vacanze estive, insieme a Lettonia, Lituania e Malta. È praticamente il doppio rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e Norvegia, ad esempio, che arrivano a 6-8 settimane di pausa. Ma altrove a fare la differenza (al di là delle fasce climatiche di appartenenza: qui fa più caldo) è la distribuzione di altre pause dallo studio nel corso dell’anno, da noi polverizzate nell’esiguo periodo natalizio, pasquale e carnevalesco. Un evidente squilibrio legato alle radici storiche di oltre un secolo fa, tali da condizionare lo stesso calendario estivo per favorire la frequenza scolastica e, nel contempo, non far mancare il proprio apporto alle famiglie, quando i ragazzi fin da luglio (ecco la pausa) erano chiamati ad aiutare le stesse nei campi a partire dalla mietitura. Nell’Italia postunitaria da alfabetizzare le esigenze del mondo contadino si facevano largo e richiedevano braccia. Il dopoguerra, poi, muta l’identità familiare (padre al lavoro, madre casalinga, figli in casa) costringendola, per via di una minima sufficienza economica, a gestire vacanze brevi e scaglionate, con il palliativo delle colonie. Un benessere generalizzato ha cambiato il quadro d’assieme, di certo, salvo considerare le fasce socioeconomiche più basse, impossibilitate a permettersi di trascorrere l’estate tra lezioni di musica, viaggi, corsi di lingua straniera.
E la pausa estiva può generare discrepanze perché la perdita di conoscenze (summer learning loss) non è equa, acuendo il gap di apprendimento fra allievi benestanti e quelli meno, (secondo la ricerca Primi si nasce. Analisi longitudinale) tanto da coinvolgere le competenze “non cognitive” (autostima, relazioni sociali, creatività, capacità di problem solving), ed ampliarsi anche successivamente.
L’ipotesi che la scuola aperta d’estate proponga attività formative libere senza (però) personale e strutture adeguate, o la soluzione di inviare i figli nei campi estivi (nel difficile incastro di date e amici), evidenziano lo stato di precarietà di una vita scolastica sorda alle mutate esigenze contemporanee, e distante dalla produzione del nostro tempo, oltre che lontana dalle modalità complesse di un mondo del lavoro in evoluzione. Realizzare la flessibilità lavorativa durante il periodo estivo, potrebbe aiutare a bilanciare le esigenze occupazionali e familiari, con il “Piano Estate” promosso dal Ministero dell’Istruzione a fungere da supporto istituzionale. Alcuni psichiatri evidenziano: il problema delle vacanze è ininfluente sul rendimento, rispetto ad un processo annuale di istruzione (qualora) corretto. Per il momento, che i ragazzi si godano il relax e un bel tuffo in acqua. Settembre, poi, verrà.