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Scuole italiane troppo patologizzanti. È culturale?

04.07.2024

Le certificazioni di disabilità intellettive e cognitive sono triplicate nel corso di 60 anni. Dal concetto di genitorialità all’attenzione focalizzata più sui sintomi che sulla persona, i fattori sono molteplici e tutti trasversali tra di loro. Il parere dell’esperto.

Sono quasi triplicati nel corso di poco più di 60 anni gli studenti delle scuole italiane che hanno un certificato di disabilità. Numeri Istat alla mano, si è passati dai 335 mila dell’inizio degli anni Sessanta agli oltre 940 mila del 2023. Ma è un fenomeno, questo, che solleva interrogativi, anche da parte degli esperti: progresso e maggiore consapevolezza della salute oppure eccessiva medicalizzazione di bambini e ragazzi?

Secondo Raffaele Iosa, che per lungo tempo è stato anche responsabile dell’Osservatorio Ministeriale sulla Disabilità e rappresentante dell’European Agency for Development in Special Needs Education, i fattori che incidono in questo incremento di diagnosi sono molteplici e tutti trasversali tra di loro. Da una parte una rinnovata idea di benessere, più premurosa rispetto a un tempo, soprattutto dal punto di vista della salute mentale, e dall’altro lo sviluppo di un nuovo approccio scientifico, più focalizzato sui sintomi che sulla persona. Il tutto in un background (anche culturale) che ha visto un mutamento delle relazioni famigliari e nel rapporto genitori-figli.

Ma a un reale aumento di certificati di disabilità intellettive e cognitive, corrisponde davvero un aumento di disturbi? Una domanda, questa, che è necessario prosi perché  se da un lato la diagnosi può aiutare a identificare specifiche necessità che richiedono un supporto per l’apprendimento degli studenti, dall’altro può portare a un eccessivo focus sulle etichette diagnostiche piuttosto che sulle reali esigenze educative-relazionali di bambini e ragazzi. Un approccio riduzionista, insomma, che rischia di avere impatti psicologici penalizzanti, influendo negativamente su autostima e personalità. Commenta Iose: «Dalla mia esperienza e dalle mie ricerche, posso affermare che le certificazioni o le diagnosi tendono a ridurre le aspettative nei confronti dei bambini, anziché aumentarle. Ci si accontenta, creando una sorta di effetto iatrogeno (effetto collaterale dovuto a un errore diagnostico), dove l’idea che ho di quel bambino, a causa della diagnosi o certificazione, è inferiore a ciò che lui potrebbe realmente raggiungere». In altri termini, il pericolo è che bambini e ragazzi potrebbero sentirsi definiti più dalla loro diagnosi anziché dalle loro reali capacità e potenzialità in un circolo vizioso da cui diventa complicato uscire.

Le congetture che possono scaturire da un dibattito simile sono davvero infinite: troppi smartphone – e in età precoce – e pochi libri? O genitori troppo apprensivi che hanno bisogno di una diagnosi per giustificare le difficoltà dei figli? Ma una cosa è certa: ogni bambino o ragazzo ha le sue specificità, i suoi punti deboli e i suoi punti di forza. E se ci sono reali difficoltà è bene che le istituzioni – scuole comprese – intervengano, ricordandosi però di non trascurare il contesto emozionale del singolo individuo. Perché a volte basta poco, come un gesto di fiducia, a far sì che uno studente torni a credere nelle proprie capacità.

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