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Cultura, Sport

Sinner, la figura di un eroe necessario

23.11.2023

Jannik Sinner, Coppa Davis 2023

Gli eroi, diversi da noi, ci affascinano perché in realtà ci danno la possibilità di proiettarci in loro. Sotto quel cappellino che raccoglie riccioli d’oro, il giovane segaligno con la racchetta, trasfigurato dall’immaginario collettivo in eroe, è uno di noi. Dopo tutto vogliamo vincere anche noi.

La storia dello sport è fatta di fotogrammi. Le parabole impossibili dei goal di Maradona; Gilles Villeneuve e la sua Ferrari F.1 su tre ruote; la fuga caparbia di Pantani contro avversari e dicerie; il volo d’airone di Tamberi sopra l’asticella; la discesa vorticosa sugli sci di Alberto Tomba; le impennate guascone di Valentino Rossi. Poi, arriva Jannik dalla Val Pusteria bolzanina, a incrociare volèe e dritti d’un ideale cubo di Rubik da rimodellare su un campo da tennis, e allora capisci che Sinner è la parola d’ordine per comprendere la nascita di un fenomeno. Le vicende sportive si trasformano in atto d’eroismo e fanno rima con le vittorie e quell’aura aleggiante su imprese prossime all’epos, nella relazione (precaria?) che s’instaura tra fragilità e poteri eccezionali.

Individuato il campione, si recuperano energie insospettabili, i comportamenti diventano vezzi folclorici, il tifo trasloca dal rettangolo verde pedatorio per abitare gli spalti di un palazzetto (il torinese Pala Alpitour), una città austeramente savoiarda si fascia dei volti del nostro Pel di carota, perché la regressione simil-infantile davanti ad un lungolinea che infilza il Djokovic di turno, regala emozioni incontrollabili. Il tennis dei grandi poeti è servito, davanti ad una folla vociante che trasforma l’incitamento in atto di devozione. Tutti dietro la prima bandiera che sventola, diventa prassi, liturgia. Pagine epiche, nello stile colorito e aneddotico dei giornalisti, riempiono fogli e dilagano tra tv e Rete, i reels si affastellano, ogni azione viene centellinata quasi fossimo quattro amici al Var.

Nella società dell’immagine ogni frammento diventa prezioso ed imperdibile. Poi, scopri che, sotto quel cappellino che raccoglie riccioli d’oro, il giovane segaligno con la racchetta, trasfigurato dall’immaginario collettivo in eroe, è uno di noi, pronto a combattere per noi, e sta lì in campo a rappresentare i nostri ideali per afferrare un sogno, tanto da raccogliere, per delega, destino e aspettative. Ci rappresenta, pur nella dismetria tra la normalità che ci appartiene e la condizione di superiorità olimpica che circonda come aura chi ha deciso di interpretare (avendo talento e carisma) lo sport come atto divino (o quasi). Si accantona l’immagine d’un’attività professionalizzata tutt’altro che priva di scopi (spettacolo al diapason compreso), e si privilegia (illudendosi) l’eroe decoubertiano senza macchia e paura.

Urge in tutti noi l’identificazione nell’unicità di qualcuno che ci rappresenti, per acquisire modalità che ci rendano riconosciuti e distinguibili, oltre che visibili ed ammirati. Il riscatto individuale e sociale è dietro l’angolo. Anche la citatissima battuta del Galileo di Brecht, «Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi», ripiega davanti alla fede di chi tifa ribaltando situazioni affinchè l’eroe sia preservato come bene primario. E pazienza che le gesta eroiche facciano perdere di vista le battaglie degli uomini, a favore di un’esaltazione collettiva che mira al benessere, se non alla salvezza personale. L’aspetto da semidio della mitologia greca che ammanta i campioni delle varie discipline e di cui il pubblico pare avere bisogno, diventa chiave di lettura sociale. Eccolo, Ennio Flaiano, ad alzare idealmente una coppa: «I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume». Tra i primi c’è una racchetta issata. I devoti della Sinnermania sentitamente ringraziano.

Credito fotografico: www.daviscup.com, Getty images per ITF 

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