Per la prima volta da quando si misura il polso climatico del pianeta, le emissioni globali appaiono in calo. È il segnale — atteso da anni — che arriva dal nuovo Synthesis Report dell’Unfccc, il documento che analizza gli impegni presentati dai Paesi entro il 30 settembre 2025 in vista del 2035.
Un risultato storico, ma fragile. I problemi sono due. Il primo riguarda l’affidabilità degli impegni: le cronache degli ultimi anni hanno mostrato che basta una sbandata politica per cancellare impegni da cui deriva il nostro livello di sicurezza. Il secondo è la misura e la velocità dei tagli: se gli attuali piani climatici nazionali (Ndc) verranno pienamente attuati, le emissioni globali si ridurranno di circa il 10% entro il 2035. Un progresso reale, ma ancora lontano da quanto servirebbe per tenere la temperatura globale sotto la soglia di 1,5°C fissata dall’Accordo di Parigi.
Resta il fatto che il segnale c’è ed è importante. Anche perché segna un giro di boa destinato a influenzare le decisioni degli imprenditori. Chi vuole fare investimenti destinati a durare decenni, prenderà per buone le promesse di un autocrate che nega la crisi climatica o preferirà fare affidamento sui trend globali dell’economia? “Grazie alla cooperazione climatica organizzata dalle Nazioni Unite e agli sforzi nazionali, l’umanità sta ora chiaramente piegando la curva delle emissioni verso il basso per la prima volta, anche se ancora non abbastanza velocemente”, ha dichiarato Simon Stiell, segretario esecutivo di UN ClimateChange. “Abbiamo bisogno di maggiore velocità e di aiutare più Paesi a intraprendere azioni climatiche incisive”.
La lezione di Dubai
L’88% dei nuovi piani climatici si basa sulle conclusioni del Global Stocktake della Cop28 di Dubai, la grande revisione collettiva che ha segnato un punto di svolta nel processo Onu. L’89% degli Ndc fissa obiettivi che riguardano l’intera economia nazionale — dall’energia all’agricoltura, dall’industria ai trasporti — mentre il 73% include strategie di adattamento per affrontare eventi estremi e vulnerabilità crescenti.
Un segnale incoraggiante arriva anche dal capitolo più spesso trascurato: quello delle “perdite e danni”, che oggi compare in circa un terzo dei piani, soprattutto nei piccoli Stati insulari che vivono sulla prima linea del fronte climatico.
Inoltre il mare, finora il grande assente delle politiche climatiche, comincia finalmente a contare: il 78% dei nuovi Ndc fa riferimento agli oceani, con un aumento del 39% rispetto al precedente ciclo di impegni. Dalla tutela delle barriere coralline ai progetti di “blue carbon”, le nazioni iniziano a considerare gli ecosistemi marini come alleati fondamentali nella lotta al riscaldamento globale.
Ma resta una domanda scomoda: chi pagherà la trasformazione? I Paesi più vulnerabili chiedono risorse reali per sostenere le promesse, e non solo nuovi target sulla carta.
La spinta dal basso
Mentre alcuni governi rallentano, la società civile accelera. “Anche se alcuni governi si oppongono al progresso o restano indietro, i cittadini, le comunità e le imprese continuano a spingere l’economia reale verso un futuro sostenibile e più verde”, ha ricordato Laurence Tubiana, Ceo della EuropeanClimate Foundation. Secondo Tubiana, la transizione climatica sta ormai maturando “dal basso”, e dovrà essere accompagnata da una maggiore inclusione delle prospettive locali per trasformare gli obiettivi globali in azioni quotidiane.
Il nuovo Synthesis Report mostra un mondo che, pur tra esitazioni e ritardi, ha imboccato la direzione giusta. Gli impegni presentati coprono circa un terzo delle emissioni mondiali, e ogni anno un numero crescente di Paesi aggiorna le proprie strategie in linea con la scienza.
Ma il tempo resta il nemico numero uno. Il messaggio dell’Unfccc è chiaro: la curva delle emissioni si piega, ma non ancora abbastanza. Servono più ambizione, più cooperazione e meno rinvii. Non basta vincere la battaglia politica, bisogna arrivare ai risultati necessari a dare sicurezza alla nostra vita.
