21 Novembre 2024
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Arte, Cultura, Moda, Società

Tatuarsi è antico, cosa comunica?

Le origini del fenomeno risalgono a più di 5000 anni fa. Il corpo dell’uomo rinvenuto nei ghiacci ne riportava ben 61. In Egitto i tattoo rivelavano clan e status sociale. Oggi in Occidente per varie ragioni è moda, mentre in Oriente resta ancora un tabù.

Il dizionario Treccani definisce il tatuaggio come una “Deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei, ottenuta mediante segni indelebili prodotti per puntura dall’inserzione sotto la cute di sostanze coloranti”, ma spiegare cosa sia davvero non è così semplice. I tattoo assumono valori o significati simbolici a seconda delle persone che li sfoggiano e delle epoche storiche. Sono passati dall’essere simboli che dichiaravano il proprio rango e la propria fede a marchi d’infamia per disertori e condannati. Oggi sono “di moda” ed è molto più facile vederli ostentati, rispetto anche a pochi decenni fa, ma la loro storia è antichissima.

La parola “tatuaggio” deriva dall’inglese tattoo, che a sua volta viene dal termine thaitiano tatau: fu James Cook a notare la pratica e “importare” il termine nel XVIII secolo. L’origine dell’usanza però è molto più remota. Ötzi, il corpo mummificato di un uomo vissuto 5000 anni fa rinvenuto nei ghiacci, ne porta le testimonianze più antiche. Sono ben 61 quelli che ha sul corpo, ottenuti passando pigmenti di fuliggine sopra piccole ferite: è la prova della presenza dei tatuaggi in Europa all’inizio dell’età del bronzo. Ma l’antropologa Michela Zucca li fa risalire addirittura alla preistoria: analizzando i segni a zig-zag sule famose veneri ha dedotto che fosse uso tra i fedeli sottoporsi a questa consuetudine.
Le testimonianze nel corso della storia sono numerose. L’uomo di Gebelein, per esempio, visse intorno al 3.330 a.C. e la donna tatuata di Deir El Medina dimostra che la pratica era diffusa anche nell’antico Egitto. Fra i Celti, gli Illiri e i Traci, i tattoo rivelavano clan e status sociale, mentre per Greci e Romani erano un tabù. Con l’avvento del cristianesimo si costituisce la fama negativa del tatuaggio: riservato ai ceti più abietti della società e ai delinquenti, fu a lungo vietato. Uno stigma durato nei secoli, tanto che Cesare Lombroso e Alexandre Lacassagne, tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo, li associano a carcerati e “devianti”.

Oggi il tatuaggio è senza dubbio più visibile e accettato in Occidente, mentre in Giappone resta ancora un tabù e in Corea del Sud è una pratica mal vista e i tatuatori hanno vita dura. Nel 2016 la società di sondaggi Harris Interactive ha stimato che il 20% degli americani era tatuato; nel 2013, Vladimir Franz ha ottenuto il 6% dei voti alle elezioni presidenziali in Repubblica Ceca nonostante abbia tattoo sul viso; in Canada il primo ministro Justin Trudeau ha un’enorme aquila haida sul braccio: tutti segni che al giorno d’oggi la percezione del tatuaggio è cambiata e lo stigma è caduto.
Ma perché ci si tatua? C’è chi lo fa per rimarcare l’appartenenza a un gruppo, chi invece vuole avere un segno distintivo che lo renda unico, chi desidera mostrare un messaggio agli occhi del mondo, chi fissare un ricordo, elaborare un lutto o dare una prova d’amore. E c’è anche chi lo fa, semplicemente, per seguire una moda. Le risposte alla domanda possono essere tantissime, tante quante sono le persone che sfoggiano un tatuaggio.

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