Ci sono due notizie di primo piano che vengono fatte girare separatamente, come se appartenessero a due campionati diversi dell’informazione: la serie A della politica estera e la serie B dell’ambientalismo. Ma le due notizie diventano chiare solo se vengono collegate, perché una spiega l’altra. Quella ambientale è che, con buona probabilità, stiamo andando verso un quinquennio a più 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale: l’avvertimento del mondo scientifico non ha trovato ascolto. Quella di politica estera ed economica è l’offensiva anti europea che Trump ha lanciato con i dazi che salgono o scendono secondo gli umori del momento: un gioco di rilanci e passi indietro che disorienta.
Apparentemente la prima notizia è più lineare. Sappiamo che l’impegno solenne di tutti gli Stati che nel 2015 a Parigi avevano firmato l’Accordo sul clima verrà probabilmente vanificato per un periodo piuttosto lungo. Il 2024 è già passato a più 1,5 gradi e i prossimi 5 anni, secondo le previsioni dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, hanno un’alta probabilità (70%) di restare inchiodati oltre il limite della sicurezza climatica.
Tecnicamente superare la soglia per uno o più anni consecutivi non equivale a una violazione formale dell’Accordo di Parigi, che considera una media su più decenni. Però, come spiegano molti climatologi, a preoccupare non è la violazione formale di un accordo, ma la sostanza: la traiettoria in cui ci troviamo. Se l’aumento di temperatura si consolida nei prossimi anni, l’obiettivo di “restare sotto 1,5°C” diventerà fuori portata.
Le implicazioni sono pesanti. L’Accordo di Parigi non era una semplice dichiarazione d’intenti, ma un patto globale basato su solide basi scientifiche: ogni decimo di grado in più significa impatti più gravi, più diffusi, più difficili da gestire. Superare stabilmente la soglia di sicurezza fissata dagli scienziati può innescare meccanismi irreversibili: lo scioglimento delle calotte polari, la destabilizzazione delle correnti oceaniche, la desertificazione di aree agricole cruciali.
Molti effetti sono già visibili. Le ondate di calore sono più frequenti e violente. La siccità si intensifica in aree già fragili come il Sahel o l’America Latina, mentre in altre le piogge stanno diventando più torrenziali e imprevedibili. L’Artico si sta riscaldando a un ritmo più di tre volte superiore al resto del pianeta.
Se le emissioni globali non calano in fretta, gli scenari peggiori – come un rapido aumento medio di 2 gradi – rischiano di diventare reali. E con +2 gradi la sicurezza alimentare mondiale vacillerebbe: raccolti ridotti, migrazioni climatiche, epidemie legate al caldo e alla diffusione di nuovi vettori patogeni.
Per evitare questo futuro, servono misure urgenti e su larga scala: l’azzeramento netto dei combustibili fossili, il rapido passaggio alle rinnovabili, il ripristino degli ecosistemi naturali, il mutamento di alcuni stili di vita. Cioè la transizione ecologica. Ed è proprio questa la posta in gioco nel continuo rialzo di Trump nella guerra dei dazi. Sotto la superficie di quella che sembra una classica guerra commerciale, si nasconde un conflitto più profondo: una sfida di modelli. Da un lato gli Stati Uniti versione Trump: un Paese che punta tutto sull’economia legata al cartello dei combustibili fossili; dall’altro l’Unione Europea che, sia pure con molte incertezze e contraddizioni, ha intrapreso il percorso della transizione ecologica.
Secondo molti analisti, la bilancia commerciale tra Stati Uniti ed Europa non ha un disequilibrio tale da giustificare una guerra commerciale così violenta. Ma se guardiamo cosa esporta l’America in Europa – petrolio, gas, motori termici – scopriamo che oltre la metà di questi beni riguarda settori minacciati dalla transizione ecologica. Il Green Deal europeo, per chi ha scommesso sul fossile, rappresenta una minaccia concreta: taglia spazi di mercato, sposta investimenti, favorisce nuove alleanze industriali, in primis con la Cina, Paese leader nel campo del green.
Gli Stati Uniti si sentono in difficoltà perché sono in ritardo rispetto a una svolta innovativa che sta cambiando in modo profondo l’economia globale. Era già successo più di mezzo secolo fa, quando nel 1961 Jurij Gagarin passò sulle teste degli americani e divenne il primo uomo a portare a termine con successo una missione spaziale. L’Urss, l’antagonista dell’epoca, aveva preso la guida della corsa verso lo spazio. All’epoca però alla Casa Bianca non c’era un presidente che rifiutava le evidenze scientifiche. John Kennedy capì da che parte andava il mondo e organizzò il Paese per renderlo competitivo: 8 anni più tardi un altro uomo, questa volta americano, mise per primo il piede sulla Luna.
Era il 1969, l’epoca di un bipolarismo globale senza discussioni. Oggi lo scenario è molto più articolato e l’Europa potrebbe giocare in proprio, a tutto campo. Tenendo presente i suoi interessi di base: ridurre la dipendenza energetica e quella dai minerali strategici, rafforzare il welfare e la libertà d’espressione che sono la base del suo soft power, utilizzare il Green Deal come bussola geopolitica e industriale per rilanciare l’industria pulita, attrarre capitali, posizionarsi nei nuovi mercati globali.
Ed è proprio il nodo del vero contenzioso con l’America di Trump. Un’Europa più forte e indipendente, orientata verso il futuro, cambierebbe gli equilibri globali dando una forte accelerazione alla corsa verso la sicurezza climatica. E metterebbe ai margini il cartello di forze economiche che ha spinto la corsa di Trump.