Dopo la Cina, l’India. E assieme alla Cina e all’India il Brasile e il Sudafrica. Trump fa bene ai Brics. La solidità del cartello di Paesi che una volta si chiamavano emergenti e che ora sono belli che emersi ma continuano a crescere viene rafforzata dai ricatti della nuova Casa Bianca. L’arrembaggio di Trump tonifica opinioni pubbliche nazionali abituate dalla storia a guardare con sospetto all’Occidente.
I risultati economici della politica Dazi First saranno valutati nei prossimi mesi, ma il segno politico dell’offensiva di Trump è già netto. La Cina non si è piegata. L’India ha detto che non smetterà di comprare petrolio dalla Russia. Il Brasile ha tenuto testa alle minacce di ritorsioni legate al rifiuto di addomesticare il processo a Bolsonaro. Il Sudafrica resiste con dignità in condizioni economiche difficili.
Questa nuova ricomposizione degli assetti geopolitici mette l’Europa in una difficoltà che potrebbe essere governata meglio. Certo i Brics non hanno dei regimi politici che un europeo può invidiare. Ma del resto l’affidabilità della democrazia degli Stati Uniti è in caduta libera nei giudizi di tutti gli indici internazionali di valutazione e il Paese non è più considerato una “democrazia piena” (full democracy).
Inoltre i Brics appaiono sempre più importanti per l’Europa da vari punti di vista. I dieci Paesi che li compongono (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia) sfiorano la metà della popolazione globale e hanno un Pil che si avvia a superare quello del G7 e lo ha già superato a parità di potere d’acquisto. Dunque costituiscono nel loro assieme un mercato interessante e, in questa fase, più stabile di quello statunitense.
Un’Unione Europea rafforzata dall’alleanza con Gran Bretagna e Canada rappresenterebbe una potenza economica in grado di stringere un dialogo economico con questa vasta area del mondo (oltre che con l’assieme dei Paesi del Mercosur). Un dialogo rafforzato da alcuni interessi comuni con importanti Paesi dell’area Brics. Cina e India si stanno infatti muovendo, sia pur tra molte contraddizioni, in direzione della decarbonizzazione. È vero che entrambe le economie hanno fondato il loro slancio sul carbone (come peraltro, in diversa epoca storica, tutte le economie occidentali). Ma quello che conta sono due fattori.
Il primo è il trend di crescita della nuova economia basata sulle fonti rinnovabili e sulla transizione elettrica. E da questo punto di vista la Cina è prima nel mondo con un distacco considerevole dal gruppo degli inseguitori, mentre l’India ha iniziato in maniera più cauta ma sta accelerando anche se con obiettivi meno ambiziosi.
Il secondo si basa sulla solidità delle motivazioni. Cina e India sanno di poter perdere molto in caso di accelerazione della crisi climatica perché il loro ciclo idrico e dunque alimentare dipende dai ghiacciai dell’Himalaya e perché le loro coste sono a rischio per la risalita dei mari. E sanno di poter guadagnare molto dall’impegno nella transizione ecologica perché il dietrofront di Trump ha tagliato le gambe al principale competitor.
Dunque, sul piano dell’economia che ha per obiettivo la decarbonizzazione, una parte dei Brics oggi è più allineata all’Europa degli Stati Uniti di Trump. E a questo punto l’Europa deve scegliere. Può subire il ricatto di Trump e tornare alla vecchia economia dei fossili con in più l’obbligo di firmare i contratti alla Casa Bianca: in questo modo lascerebbe alla Cina (e in futuro all’India) il monopolio della transizione ecologica. Oppure può mantenere gli obiettivi di sviluppo tecnologico, economico e ambientale che si è data e rilanciare con un’apertura dei giochi commerciali a tutto campo, aggiungendo ai target ambientali un sostegno efficace alle sue imprese di punta per aiutarle a conquistare posizioni nella partita decisiva per l’economia del ventunesimo secolo.