05.08.2023
Donald Trump ritorna a Washington da imputato, non ha mai riconosciuto o accettato la sua sconfitta da presidente. Per lui la vera giuria sarà quella degli elettori del novembre 2024.
«Vinceremo di nuovo e faremo l’America ancora più grande». Il commento di Donald Trump di oggi è sostanzialmente quello dell’estate 2020: una vittoria predestinata, che solo qualche oscuro disegno può strappargli. È per quella narrazione, lanciata ben prima delle elezioni di novembre e sfociata nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, che il procuratore speciale Jack Smith ha formalmente incriminato l’ex presidente repubblicano.
L’arrivo di Trump a Washington per le formalità processuali – identificazione, lettura delle accuse, verbalizzazione della scontata dichiarazione di innocenza – non è molto diverso dal suo addio 31 mesi fa dopo la sconfitta che non ha mai riconosciuto o accettato. Stessa scorta di SUV neri, stesse strade sgombrate ma soprattutto stesso broncio per l’insulto che ritiene di aver subito. Il gran numero di inchieste e le enormi spese legali, in parte a favore dei suoi dipendenti più deboli, come il valletto Walt Nauta, non lo hanno reso più malleabile.
Le 45 pagine dell’atto di incriminazione, che chiunque può scaricare dal sito del Department of Justice, incolpano Trump di quattro diversi complotti: contro gli Stati Uniti, per bloccare un procedimento ufficiale (con l’ulteriore sfumatura, nel secondo capo d’accusa, di averlo messo in pratica), contro i diritti civili cittadini. Manca il reato di insurrezione, per il quale sono già stati condannati molti degli oltre 1.000 accusati. Perché? La spiegazione, secondo molti commentatori statunitensi, sarebbe di carattere politico-legale.
Al contrario di quella per insurrezione, l’eventuale condanna per uno o più complotti non impedirebbe a Trump di ricandidarsi nel 2024. Smith, insomma, vorrebbe spuntare l’arma più potente dei repubblicani, cioè l’idea che l’ex presidente sia un perseguitato politico anziché un golpista antidemocratico. Se anche così fosse, finora l’elettorato repubblicano non sembra aver abboccato. Per circa tre quarti della base, infatti, Trump viene ingiustamente perseguitato per qualcosa che non ha fatto.
Al centro del complotto, spiega Smith nel documento, c’è la produzione e consegna di liste di grandi elettori alternative a quelle approvate dai singoli stati.
Nel 2020 Trump convinse i repubblicani di molti stati chiave a preparare liste alternative da inviare qualora avessero avuto successo i suoi ricorsi per i presunti brogli a suo sfavore. Quei ricorsi Trump li perse però tutti, trasformando l’invio “cautelativo” in un complotto contro la regolarità delle elezioni e, di conseguenza, contro il diritto dei cittadini a scegliersi il presidente.
È presto per dire se questa impostazione reggerà in giudizio. Ma, a prescindere da questo, sinora Smith non ha sbagliato un colpo. Ha lavorato in silenzio, senza comparire sui media, senza far trapelare nulla. Tace persino l’atto di incriminazione, nel quale i sei complici di Trump sono indicati semplicemente come “Co-complottista n.1, n.2, n.3…”.
Per evitare distrazioni o per dare loro un’ultima possibilità di collaborare in cambio di uno sconto di pena? Non è dato saperlo. In compenso, l’avvocato di Rudy Giuliani ha confermato che il suo assistito è il primo di questa poco onorevole lista.
L’incriminazione formale non è una condanna. Non solo perché il processo si deve ancora celebrare, ma perché per Trump la vera giuria sarà comunque quella degli elettori del novembre 2024.