27 Settembre 2025
/ 26.09.2025

Trump rallenta ma non ferma la cura del clima

Nonostante il voltafaccia della Casa Bianca, la Settimana del clima a New York si conclude senza inversioni di marcia: il processo tiene. Anche se è troppo lento

“Esorto il mondo a trasformare le promesse in gesti concreti. Questa nuova era di azione per il clima deve puntare ad avvicinare la transizione all’economia reale”. Bello e accorato l’invito, di Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Unfccc) all’inaugurazione della Settimana del clima a New York, che, tra Assemblea generale delle Nazioni Unite, Global Renewables Summit e Climate Week vera e propria, è stata l’occasione per testare il polso della transizione in vista della Cop 30 che si terrà a Belem a metà novembre.

Due eventi chiave

Ma il polso, nonostante Stiell e il coro della scienza climatica che preme per tagli sostanziosi alle emissioni di gas serra, resta debole. Pulsante ma con una pressione inadeguata alla bisogna. La transizione avanza, ma lentamente, troppo lentamente. Due sono stati gli eventi chiave della settimana del clima. Il primo è stato sicuramente l’intervento di Donald Trump all’Assemblea Generale dell’Onu: ha attaccato frontalmente l’economia green e le rinnovabili (“che con l’immigrazione sono le forze che stanno distruggendo gran parte del mondo libero”): ha definito niente meno che “un truffa” il cambiamento climatico; ha inneggiato invece al “pulito, bellissimo carbone” e cioè alla fonte energetica più in inquinante in termini climatici.

Se mai servisse la prova, e non serviva, Trump nel suo mandato remerà contro dando fiato a negazionisti e fonti fossili. Piccola consolazione, non ha annunciato., come non pochi credevano avrebbe fatto, l’uscita dall’UNFCCC dopo quella, confermata subito dopo il suo insediamento, dall’accordo di Parigi. L’America, seppure orgogliosamente negazionista, non ha chiuso tutti i ponti e questo è un minuscolo spazio sul quale lavorare.

L’annuncio di Xi

Secondo punto chiave nella settimana newyorkese è l’annuncio fatto dal presidente cinese Xi in persona, del contenuto del prossimo Ndc (acronimo dei “contributi determinati a livello nazionale”, cioè i tagli delle emissioni volontariamente decisi dai singoli Paesi) della Cina, cioè del Paese responsabile di oltre il 31% delle emissioni climalteranti globali. E anche qui, sebbene la differenziazione con Trump sia profonda e l’impegno verso un target di emissioni zero sia assolutamente ribadito, e anzi anticipato rispetto al recedente 2060, Xi ha presentato un NDC deludente.

La Cina promette un taglio del 7-10% delle proprie emissioni nette rispetto al picco (che potrebbe essere raggiunto nel 2025); di espandere il mercato nazionale delle quote di emissione ai settori ad alta intensità di emissioni; di aumentare la quota dei combustibili non fossili nel consumo energetico totale a oltre il 30%. E di espandere la capacità installata di energia eolica e solare a oltre 6 volte i livelli del 2020, puntando a raggiungere i 3.600 GW.

Rispetto ad analisi che la accreditavano di poter fare il 30% è deludente. “Ma quel 30% – ha commentato a Bloomberg il professor Hu Bin, docente dell’Istituto sul Cambiamento Climatico e Sostenibilità alla Tsingua university – è molto sfidante per la Cina, in particolare per quanto riguarda l’uscita dal carbone e l’integrazione nella rete delle energie rinnovabili e nella creazione ci adeguata capacità di storage. Io credo però che la Cina farà meglio di quanto ha promesso, sono molto fiducioso che si attesterà tra il 10 e il 13%”. Il che è meglio, ma ancora non abbastanza. Non a caso Climate Tracker “ ha definiito l’NDC cinese “altamente insufficiente”.

Un salto psicologico

Ma c’è particolare non secondario. Li Shuo, direttore del China Climate Hub presso l’Asia Society Policy Institute (Aspi), ha sottolineato che questo impegno “rappresenta un grande salto psicologico per i cinesi”, perché si passa da obiettivi che limitavano la crescita delle emissioni a un obbligo di ridurle”. I precedenti NDC cinesi si concentravano infatti sulla riduzione dell’intensità di carbonio (emissioni per unità di PIL), una strategia comune per le economie emergenti con un fabbisogno energetico in crescita. Questo nuovo impegno fissa invece un obiettivo di riduzione assoluta, che rappresenta un impegno più diretto a contenere le emissioni complessive. E’ un particolare da tenere in considerazione.

Certo ad oggi, considerando i Paesi che hanno formalmente presentato a UNFCCC i loro nuovi NDC (che sono validi per il quinquennio 2030/35) e quindi non comprendendo la Cina visto che quello fatto da XI è un annuncio tanto autorevole quanto informale, il piatto piange. A presentare nuovi impegni volontari di riduzione sono stati solo 47 Paesi (53 con le promesse a farlo a brevissimo) pari al 25,1% delle emissioni.

I 47 Ndc

Per capirsi, i 47 Ndc presentati si traducono in appena 0,6 Gigatonnellate di CO2 equivalente di impegni incondizionati di riduzione (che diventano 0,9 Gigatonnellate considerando gli impegni condizionati). Ora, per centrare il target dei 2 gradi mancano ancora tagli per 19,6 Gigatonnellate di CO2 equivalente e per quello di 1.5 gradi – ormai del tutto irrealistico – di 30,6 Gigatonnellate. Certo, bisognerà aggiungere l’impegno dell’Europa e va contabilizzato quello della Cina, ma manca un’enormità.

 E il quadro è ancora peggiore di quello che appare perché l’impegno degli Stati Uniti, annunciato da Joe Biden poco prima di lasciare la Casa Bianca, sarà certo disatteso da Trump e il target statunitense di una riduzione del 61-65% al 20235 rispetto al 2021 si tradurrà, secondo stime indipendenti, in un più modesto 26/35%.  Il che riduce ancora il risultato finale.

Va detto che per raggiungere l’obiettivo non ci sono solo da considerare gli NDC, c’è anche il lavoro da fare per far sì che si crei una capacità alternativa alle fonti fossili. Interessante in questo senso è stato il Global Renewables Summit, che ha ribadito l’importanza dell’impegno preso alla COP 28, di Dubai, e riconfermato alla COP 29 di Baku, per adeguare le reti di trasmissione dell’elettricità e aumentare la capacità di stoccaggio (che è un fattore cruciale si si vogliono usare grandi quantità di energie rinnovabili).

L’impegno per lo stoccaggio

Oltre 65 Paesi e 100 organizzazioni sostengono l’impegno globale per lo stoccaggio di energia e le reti elettriche, proposto dalla presidenza della COP29. L’impegno fissa l’obiettivo di raggiungere 1.500 GW di stoccaggio di energia e 25 milioni di chilometri di infrastrutture di rete entro il 2030. Questo impegno è cruciale per integrare le energie rinnovabili, garantire una trasmissione affidabile dell’energia e assicurare un sistema energetico resiliente e moderno, in linea con l’obiettivo di triplicare le energie rinnovabili entro il 2030.

Ottimo, ma ora andrebbe fatto. “Oltre agli impegni sottoscritti – ha osservato Bruce Douglas, CEO della Global Renewables Alliance – servono ora azioni: i governi devono aumentare le loro ambizioni in materia di stoccaggio di energia a lungo termine – dove è richiesto 1 terawatt entro il 2030 – e adottare riforme politiche e normative che stimolino gli investimenti e accelerino lo sviluppo delle tecnologie di rete e di stoccaggio”. E anche qui sta il problema. Non c’è solo Trump a remare contro. Anche tra i politici di buona volontà che non negano la questione climatica, ci sono farisei e ignavi. Servono fatti, e non belle parole che si perdono nel vento.

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