Trasformati in arma di ricatto o, nel migliore dei casi, in uno strumento politico, oggi avrebbero dovuto entrare in vigore i dazi. Ma con Donald Trump le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Quella sulle tariffe doganali si è materializzata quando in Europa era già passata la mezzanotte. In piena notte per Bruxelles, ma con il pomeriggio ancora giovane a Washington, il presidente degli Stati Uniti ha firmato l’ennesimo ordine esecutivo con il quale rimanda di una settimana l’entrata in vigore di nuove tariffe per decine di Paesi.
Un rinvio che suona come una finestra diplomatica, anche se stretta, per limare accordi o ridurre l’impatto. Ma per molti Paesi, la linea della Casa Bianca è ormai tracciata. L’obiettivo di Trump è quello di correggere gli squilibri commerciali e punire chi, secondo il presidente americano, non ha mostrato “buona volontà” nei confronti degli Stati Uniti.
Europa salva ma con il nodo esenzioni
Il dato politico più rilevante riguarda l’Unione europea. Nonostante le tensioni e la corsa contro il tempo per trovare un’intesa, l’accordo stretto in Scozia tra Trump e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha retto. I dazi sulle merci europee resteranno al 15%, come stabilito, e non subiranno rincari. Un risultato non scontato, soprattutto alla luce della scarsa unità con cui i Ventisette avevano affrontato il dossier. La linea di Bruxelles è quella di accettare il 15% generalizzato, per evitare il 30% minacciato due settimane fa, e negoziare esenzioni sul massimo numero di prodotti come farmaci, alcolici, quote su acciaio e alluminio.
Che la partita fosse chiusa lo aveva confermato ieri il portavoce della Commissione Ue Olof Gill: “Domani i dazi statunitensi limitati al 15% con alcune esenzioni settoriali entreranno in vigore, questa è la nostra intesa”. E intanto il lavoro continua sul testo comune. “I negoziatori, come concordato, stanno lavorando alla dichiarazione congiunta sulla base dell’accordo raggiunto tra la presidente von der Leyen e Trump”. In ogni caso, il documento “non è un documento giuridicamente vincolante, ma piuttosto un insieme di impegni politici, una tabella di marcia da cui proseguire la nostra cooperazione”.
Da lì arriveranno “le ulteriori procedure legali che saranno richieste da parte nostra” e “le ulteriori esenzioni negoziate che intendiamo integrare nel nostro accordo complessivo con gli Stati Uniti”, precisa Gill. Dunque, le due parti stanno continuando a negoziare e, in questo contesto, “la Commissione rimane determinata a raggiungere e a garantire il massimo numero di esenzioni” dai dazi Usa.
Canada punito
Molto meno bene è andata al Canada. Ottawa incassa un aumento dei dazi dal 25% al 35% per i prodotti non coperti dal trattato commerciale nordamericano (Cusma). Una sanzione motivata ufficialmente con il mancato impegno canadese nel contrasto al traffico di fentanyl, ma che odora di ritorsione politica. “Il Canada ha scelto di reagire contro gli Stati Uniti anziché collaborare”, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
Il premier dell’Ontario, Doug Ford, ha già esortato il primo ministro Mark Carney a “non cedere” a quelle che ha definito “provocazioni elettorali”. Il riferimento alla campagna per le presidenziali americane è chiaro: Trump gioca la carta dei dazi per rafforzare il proprio messaggio sovranista e protezionista.
Tra accordi e ritorsioni
Accordi sono stati raggiunti anche con Corea del Sud, Giappone e Regno Unito. Le rispettive aliquote sono state confermate o addirittura limate: 15% per Seul e Tokyo, 10% per Londra. Alcuni Paesi hanno ottenuto riduzioni significative rispetto all’elenco pubblicato il 2 aprile: la Cambogia, ad esempio, è scesa dal 49% al 19%, il Lesotho dal 50% al 15%, il Vietnam dal 46% al 20%.
Ma altri, al contrario, sono stati duramente colpiti. La Svizzera passa dal 25% al 39%, in quello che appare un chiaro segnale punitivo. La Siria è in cima alla lista nera con un dazio del 41%, seguita da Laos e Birmania al 40%, e dalla Serbia al 35%.
Il Brasile, inizialmente colpito solo da un dazio del 10%, ha subito un’aggiunta da brividi: un ulteriore 40% su specifiche merci, come rappresaglia per il processo in corso all’ex presidente Jair Bolsonaro. Trump, si sa, non dimentica i suoi alleati.
Capitolo a parte per la Cina. In un momento in cui i rapporti bilaterali sembravano precipitare verso l’ennesimo scontro frontale, Washington e Pechino hanno trovato un’intesa provvisoria: gli Usa riducono i dazi dal 145% al 30%, la Cina abbassa le sue tariffe dal 125% al 10%. In cambio, viene sospesa ogni limitazione al commercio di beni strategici come le terre rare e i semiconduttori. Una tregua, non una pace. E infatti i negoziati proseguiranno almeno fino al 12 agosto.
Un dazio universale e un occhio al Congresso
Nel nuovo piano è stato introdotto anche un dazio “universale” del 10% per tutti i Paesi non espressamente citati in allegato. Ma non finisce qui: è stato stabilito anche un dazio del 40% su qualsiasi merce che venga ritenuta “trasbordata”, ovvero spedita da un Paese terzo per aggirare i dazi americani.
Tutto ciò, però, potrebbe non passare indenne dalle aule giudiziarie. La Corte d’Appello federale di Washington ha avviato l’esame di un ricorso per verificare se Trump abbia ecceduto i propri poteri imponendo dazi generalizzati senza l’approvazione del Congresso. “Una presa di potere senza precedenti”, ha dichiarato l’avvocato dei ricorrenti, che rappresentano piccole imprese e alcuni Stati americani.
La nuova ondata di dazi rischia di alimentare una spirale di ritorsioni e incertezze. A pagarne il prezzo potrebbero essere proprio le imprese e i consumatori, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Trump, però, non sembra avere dubbi: “Stiamo ristrutturando il commercio globale a beneficio dei lavoratori americani”, ha dichiarato dalla Casa Bianca. È chiaro che i dazi non sono solo uno strumento economico, ma un’arma politica.