Sta, anche se timidamente, crescendo una risposta positiva al turismo predatorio, È l’Italia delle spiagge con accesso regolato, delle calette protette, dei fondali salvati da ancoraggi selvaggi. Un’Italia che ha deciso di ascoltare il mare, di smettere di sfruttarlo e di iniziare a custodirlo. Perché sì, si può fare turismo senza distruggere ciò che lo rende desiderabile. Non è solo un’ipotesi: è già realtà. E funziona. Lo dimostra un dossier sui casi virtuosi reso noto dalla Fondazione Marevivo che da 40 anni si batte per la protezione dei mari.
La prova viene dal territorio
Sardegna, Salento, Cinque Terre, Maremma, Egadi, Lampedusa. Non stiamo parlando di luoghi sperduti, ma di icone del turismo balneare italiano, da sempre meta di flussi intensi. Ed è proprio qui che sono nate alcune delle pratiche più intelligenti di convivenza tra economia turistica e salvaguardia ambientale.
C’è chi ha imposto un numero massimo di accessi giornalieri, chi ha trasformato una spiaggia in un santuario per la fauna marina, chi ha riaperto sentieri e dune restituendoli alla natura e alla lentezza. La lezione è semplice: limitare l’impatto umano non impoverisce l’esperienza turistica, la arricchisce. E soprattutto, la rende sostenibile nel tempo.
Quando il turismo è troppo, il mare si ammala
La necessità di agire – sottolineano a Marevivo – è sotto gli occhi di tutti. L’overtourism, cioè l’eccesso di visitatori concentrato in spazi limitati, sta mettendo in crisi molte aree costiere italiane. Non si tratta solo di affollamento sulle spiagge o caos nei parcheggi: il problema è più profondo e colpisce gli ecosistemi marini.
Le ancore lacerano le praterie di Posidonia, rifugio e polmone verde per moltissime specie. I rifiuti abbandonati – soprattutto plastica – intossicano le acque e arrivano, sotto forma di microplastiche, fino agli organismi marini. Secondo i dati UNEP, il Mediterraneo, pur rappresentando una porzione minima delle acque globali (1%), contiene ben il 7% delle microplastiche presenti nel mondo.
“Quando parliamo di overtourism – spiega Rosalba Giugni, presidente di Marevivo – pensiamo subito a Venezia, Roma o Firenze. Non ci soffermiamo quasi mai ad evidenziare come, invece, il mare con i suoi delicati ecosistemi sia stato una delle prime vittime del turismo di massa e dell’inquinamento che spesso ne deriva. Eppure, nel nostro Paese esistono già casi di successo che hanno risolto positivamente il fenomeno. Amministrazioni lungimiranti che hanno capito che tutelare il patrimonio e la bellezza ambientale è un incentivo, e non un freno, per l’economia legata al turismo”.
Gli esempi virtuosi
A Gallipoli, uno stabilimento rumoroso e affollato è stato smantellato per restituire le dune alla vegetazione e rendere l’accesso alla spiaggia possibile solo a piedi o in bici. Alle Egadi si è detto stop all’ancoraggio indiscriminato: oggi i natanti possono fermarsi solo in campi boa prenotabili, pensati per non danneggiare i fondali.
A Baunei, sulle coste sarde, i limiti di accesso alle spiagge più celebri sono stati estesi anche alle imbarcazioni. Nelle Cinque Terre si regola non solo il traffico a terra ma anche quello via mare. E nell’Isola dei Conigli, un tempo assediata da bagnanti e food truck, oggi regna il silenzio, e le tartarughe sono tornate a nidificare indisturbate.
Difendere la bellezza è una scelta economica (e culturale)
Spesso si pensa che tutelare l’ambiente significhi sacrificare il turismo, rinunciare a qualcosa. È l’esatto contrario. Le località che stanno investendo nella regolamentazione dei flussi e nella protezione degli habitat naturali si stanno riposizionando nel mercato come destinazioni di qualità, autentiche, in grado di offrire un’esperienza unica e profonda.
Il turismo del futuro – e sempre più anche del presente – è quello che cerca il contatto con la natura, non la sua violazione. È il turista che vuole lasciarsi qualcosa dentro, non solo portarsi via una foto. E questo tipo di turismo ha bisogno di regole, non di divieti: di pianificazione, non di chiusura.
Il Mediterraneo è fragile. È una meraviglia geologica e biologica, ma anche una vasca semi-chiusa, dove tutto quello che entra – rifiuti, scarichi, rumore, plastica – tende a restare. Non possiamo continuare a comportarci come se fosse infinito.
Le buone pratiche italiane dimostrano che si può cambiare rotta. Serve volontà politica, serve il coraggio di amministratori locali lungimiranti, ma serve anche un nuovo patto culturale tra chi ospita e chi visita.