15.10.2024
Si allarga il numero dei condannati a morte negli ultimi dieci anni. Ma i dati rimangono incompleti a causa delle restrizioni di Stato imposti da Cina, Corea del Nord, Bielorussia e Vietnam. Nel 2023 l’aumento è stato del 31% rispetto al 2022, ma buone notizie da Africa e Pakistan. Quanto è utile una pena che non “ha mai reso migliori gli uomini”?
Nel 2023 il più basso numero di Paesi che prevedono ancora la pena di morte ha eseguito la più elevata quantità di condanne capitali nell’arco dell’ultimo decennio. Ma il totale, diffuso nel rapporto di Amnesty International, andrebbe aggiornato con i dati rimasti inaccessibili, a causa del segreto di Stato o del «controllo delle informazioni», di Cina (sempre secondo Amnesty, il maggior esecutore al mondo), Corea del Nord, Bielorussia e Vietnam. Quelle del 2023 sono state conteggiate grazie a dati ufficiali, alle notizie provenienti dagli stessi condannati, dai loro legali o dalle loro famiglie, con reportage dei mezzi di informazione e in virtù dell’impegno di specifiche organizzazioni. Sono state 1.153, con un aumento del 31 per cento rispetto al 2022. Una somma (di persone) più estesa di tutte quelle evidenti nel periodo di tempo successivo all’anno 2015, quando i condannati a morte furono 1.634.
L’espansione della cifra, dicevamo ancora parziale, è attribuibile all’aumento delle esecuzioni dovute, in Iran, ai reati legati alla droga. È in Iran che si conteggia, infatti, il 74 per cento delle esecuzioni totali. Segue poi l’Arabia Saudita, con il 15 per cento. L’incremento così misurato sarebbe dovuto, più in generale, all’indifferenza nei confronti delle restrizioni internazionali all’uso di quella pena che, nel diciottesimo secolo, Cesare Beccaria definiva «inutile prodigalità di supplici che non ha mai resi migliori gli uomini». L’autore di «Dei delitti e delle pene», che contribuì, con le sue analisi, al cambiamento di paradigma in tema di giustizia contro il crimine, non più intesa come forma di espiazione del peccato, ma come prevenzione ed educazione, definiva la condanna a morte la «guerra di una nazione contro un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere». L’autorità “politica” c’è e si fa sentire.
L’assemblea nazionale della Corea del Sud, ad esempio, come evidenzia lo stesso rapporto, ha esteso l’uso della pena, adottando una serie di emendamenti che la prevedono in caso di omicidio e di abbandono di neonati. Esisterebbe, in vari Paesi, la tendenza a evocarla durante le campagne elettorali (è accaduto a Taiwan, ma anche negli Stati Uniti) in una più ampia retorica utile a fini politici. È un fenomeno che va considerato, oltre la consistenza di dati reali, per comprendere tendenze e futuro. Parlare della disumanità della pena di morte per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica non genera sempre gli effetti sperati, considerando che la richiesta di “sicurezza” passa attraverso esperienze, incontri, paure (legittime) e si concretizza con interventi su costituzioni, codici e sanzioni. Buone notizie, in questo senso, giungono dal Pakistan, con l’abrogazione della pena per i reati di droga, Malesia, e Ghana, con il Parlamento del Paese africano che ha votato a favore della rimozione della pena di morte dai codici penale e militare. Anche Kenya, Liberia e Zimbabwe si stanno muovendo in questa direzione.