E poi arriva l’invito di zia Adele al pranzo di Pasqua. Di suo, rappresenterebbe solo un’occasione di condivisione familiare: cibo, chiacchiere e in buona sostanza la costruzione di ricordi futuri. Nei fatti, si può trasformare in uno tsunami domestico di difficile gestione. Il copione è sempre lo stesso. Per fedeltà alla tradizione e fare cosa gradita ai suoi ospiti, zia Adele porta a tavola l’agnello. Al tuo diniego, scatta in rapida successione: incredulità, estenuanti tentativi di farti cambiare idea, sdegno. Con l’ultimo stato emotivo, ad essere servito – oltre all’agnello – è una crisi diplomatica di livello Baia dei Porci (per rimanere in tema “reparto macelleria”…). La stizza, come un’onda gravitazionale, investe i commensali con un fronte di curvatura che abbatte ogni tentativo – solo pensato, badate bene – di giustificarsi.
Anche questa Pasqua è andata così. Ma se avessimo dato voce con maggior coraggio e intraprendenza alle nostre ragioni avremmo potuto ribattere a zia Adele e parentela assortita che in realtà la tendenza dimostra che sono sempre di più le persone che dicono “no, grazie”. Sicuramente le costolette d’agnello saranno una prelibatezza, niente da dire. Ma cresce il fronte di chi vi rinuncia serenamente. A Pasqua 2024, tanto per dire, il calo del consumo di carne d’agnello è stato pari al 20%.
Gli agnelli italiani sono in minoranza
Secondo la fotografia scattata dall’Istat, gli agnelli macellati ogni anno in Italia sono passati da oltre 5 milioni nel 2002, a 2 milioni nel 2023. Già nel 2022 un report sul settore ovicaprino diffuso da Ismea lamentava un calo di quasi il 20% sul valore di spesa. Ma al tema etico – se fosse questa la ragione per cui non si consuma il cucciolo di pecora (perché di questo brutalmente stiamo ragionando) – s’affianca anche quello qualitativo perché non tutta la carne in commercio vanta gli stessi standard: su 550mila agnelli presenti in commercio durante il periodo pasquale, spiega il Consorzio di tutela dell’Abbacchio Romano Igp, oltre la metà proviene dall’estero.
Sono, infatti, circa 300 mila i capi importati che spesso vivono in “condizioni poco rispettose, senza garanzie di tracciabilità e di buone pratiche di allevamento. Ciò nonostante, sono gli stessi che vengono poi distribuiti a prezzi inferiori del 40% rispetto alla produzione certificata nazionale che conta 185mila agnelli”.
Un tema, quello sanitario, sempre molto delicato quando si parla di carne. Se un consumo saltuario non vede nubi scure all’orizzonte, il cielo si fa buio e tempestoso all’aumentare delle porzioni. Gli epidemiologi, si legge sul sito dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, “concordano sul fatto che gli individui che seguono diete ricche di proteine animali, soprattutto carni rosse e lavorate, hanno un maggior rischio di sviluppare malattie croniche non trasmissibili come diabete, obesità, malattie cardiovascolari, renali e neurodegenerative, oltre a diverse forme di cancro e infezioni”.
Riguardo ai tumori, spiegano ancora dall’Airc, il rischio aumenta soprattutto per quelli dell’apparato gastrointestinale, come il tumore del colon-retto e dello stomaco. Ci sono poi evidenze anche rispetto al rischio di sviluppare altri tipi di neoplasie come quelle al seno, ovaio, prostata, endometrio. Già dieci anni fa, nel 2015, l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) di Lione stabilì che la carne rossa era “probabilmente cancerogena” e che la carne rossa lavorata (insaccati e salumi) era “sicuramente cancerogena”.
Occhio a non fare la fine dell’agnello
La Iarc – vale la pena ricordarlo – è un’agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze. Tutti i dati che hanno portato a questa classificazione e le riflessioni sul tema sono descritte in dettaglio nella monografia “Carni rosse e lavorate”, pubblicata dagli esperti della Iarc nel 2018 e basata sulla revisione di oltre 800 studi sull’argomento. Negli anni seguenti i risultati di queste ricerche sono stati confermati da tutti i singoli studi epidemiologici sul tema, tra cui quello pubblicato all’inizio del 2025 sulla rivista Nature Communications.
Torniamo al nostro agnello che è, lo sappiamo fin da bambini, simbolo della Pasqua – sia cristiana che ebraica – perché rappresenta il sacrificio. Nell’Antico Testamento, l’agnello era sacrificato durante la Pasqua ebraica per ricordare la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Nel Nuovo Testamento, Gesù è chiamato agnus dei per celebrare il suo sacrificio per la salvezza dell’umanità. Il rischio però è che davanti alle evidenze della scienza, ad essere sacrificata sia anche la nostra salute e tutti noi si faccia la fine dell’agnello. Zia Adele compresa. Buona Pasqua a tutti.