18.09.2023
Forme rotonde, visi paffuti, braccia tornite, pance debordanti, espressione di fisicità corpulenta e vitalità prorompente. La fortunatissima produzione del colombiano Fernando Botero ai vertici del mercato internazionale, forte del consenso di un pubblico affezionato che offriva una chiave di lettura diversa.
Ora che non c’è più, lascia davvero un grande vuoto, anzi “grosso”. Avrebbe sorriso a una battuta del genere. Perché il colombiano Fernando Botero, uno degli artisti più significativi del dopoguerra, aveva nel codice genetico il Dna della leggerezza e dello spirito ilare, direttrici di una poetica pittorica insidiata dalle letture semplicistiche di accigliati censori per l’approccio ingenuo a cose e persone.
Quelle sue forme rotonde, i visi paffuti, le braccia tornite, le pance debordanti, espressione di fisicità corpulenta e vitalità prorompente, erano diventati il marchio distintivo, personalissimo, votato alla volumetria che trasferiva tutte le raffigurazioni di persone in sovrappeso sul piano dello spazio a 360°.
«Credo molto nel volume, in questa sensualità che suscita piacere. Quello che dipingo sono i volumi. In una natura morta, un animale o un paesaggio dipingo anche con il volume», affermava convinto.
Pittore sin dai quindici anni e scultore da quando ne aveva 75, le origini a Medellin (poi tristemente famosa per il “Cartello” ed il traffico di droga), i referenti culturali di Goya, Velàzquez del Prado a Madrid , e Tiziano e Tintoretto all’Accademia di San Marco di Firenze, le copie eseguite di Giotto e Andrea del Castagno, Piero della Francesca, le campagne toscane e del ravennate, il miraggio di Venezia contrapposti all’ostilità del paese natio, sordo a quella sua pittura tondeggiante, sono i passi che lo conducono al Greenwich Village di New York e a Peter Paul Rubens, di cui elabora stile e visione. L’opulenza delle forme e la “liberazione” del corpo da canoni estetici restrittivi, secondo la lettura critica di Bernard Berenson sui volumi, si trasfondono nella miscela cromatica e figurativa esplosiva di un incontro tra l’esperienza dell’America Latina provinciale (dalle differenze sociali marcate), esuberante e vitale della sua gioventù e la fascinazione del Rinascimento italiano.
Vita, religione, sensualità dei nudi femminili, natura morta, circo, colore e tauromachia, sono i temi più cari e ricorrenti. Non i capolavori rivisitati come le Menine di Velázquez, la Fornarina di Raffaello, il dittico dei Montefeltro di Piero della Francesca, i ritratti borghesi di Rubens e van Eyck, ma la Ballerina alla sbarra (2001), nella mostra a lui dedicata, 60 años de pintura a Madrid 2020, appare tuttora come opera simbolica, per chi voglia cogliere l’anima ispiratrice di una pittura che aveva trasformato donne e uomini dalla mole esagerata in bambinoni dall’affetto tridimensionale e dai colori sgargianti, solo apparentemente sinonimo di sensualità primitiva o di minimalismo naïf.
Al fondo si scorge una venatura malinconica d’ambiguità iperrealista: ciò che appare in Botero non è mai la realtà in sé ma un surrogato spesso dai tratti enigmatici, con figure che non diventano mai caricature, non hanno aspetti deformanti pur se deformate, e non sprigionano carica erotica perché sono carnose ma non carnali.
In quella freddezza, falsata innocenza, nell’apparente normalità degli ambienti, nei gesti misurati, mai spontanei, riaffiora l’anima conflittuale sudamericana che travalica la luce intensa dei paesaggi bucolici o i colori scintillanti di paesaggi, abiti e arredi, per mostrare il volto triste di una realtà dai problemi rinviati in eterno.
«Un quadro è un ritmo di volumi colorati, in cui l’immagine assume il ruolo di pretesto», l’ultima verità.