24.09.2023
Nuova inchiesta Pecorelli: la strage di Bologna dietro l’omicidio, interviene il figlio e punta il dito sul killer: “Non accetterò processi farsa o archiviazioni”
L’INTERVISTA ESCLUSIVA: parla Andrea Pecorelli, figlio del giornalista Mino Pecorelli ucciso a Roma la sera del 20 marzo 1979 con 4 colpi di pistola. Molti i processati e gli assolti tra figure politiche importanti e mafiosi siciliani. «Il nome di mio padre non è finito a caso nelle sentenze che hanno condannato all’ergastolo per la strage di Bologna l’ex Nar Gilberto Cavallini e poi l’avanguardista Paolo Bellini».
«L’assassino di mio padre si porta dentro la soddisfazione di averla fatta franca per oltre quarant’anni e se la ride pensando di sfuggire alle maglie della giustizia anche questa volta. Ma non sarà così. Perché oggi, finalmente, sono chiari movente e responsabilità, quindi non accetterò processi farsa o archiviazioni».
Andrea Pecorelli, il figlio del giornalista Carmine Pecorelli, non le manda a dire e in una lunga intervista punta il dito sul killer di suo padre “già indagato e prosciolto in passato” e su una giustizia “timorosa e lenta”.
Per la morte di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso a Roma la sera del 20 marzo 1979 con quattro colpi di pistola, sono stati processati e assolti Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Massimo Carminati e i mafiosi siciliani Pippo Calò, Tano Badalamenti e Michelangelo La Barbera.
«Il processo di Perugia è stato orchestrato da chi voleva eliminare dalla scena politica Giulio Andreotti. Che avrà altre responsabilità, ma non quella di essere il mandante dell’omicidio di mio padre. In quell’aula ho visto sfilare l’arroganza di primedonne in toga e la miseria di pentiti imbeccati e manovrati come burattini. È stato un processo inutile perché di Mino Pecorelli non importava a nessuno».
«Che ricordi ho di mio padre? Pochi. Avevo 14 anni quando è stato ucciso. So che durante la Seconda guerra mondiale si arruolò nell’armata del generale Wladyslaw Anders per fermare l’avanzata dei nazifascisti e che fu decorato con la croce di ferro. So che era un tifoso della Lazio. L’ultima immagine che ho di lui è quella passata da un telegiornale la notte del 20 marzo. È quella del suo cadavere, dei vetri rotti di un finestrino affogati nel sangue sull’asfalto. E intorno poliziotti e giornalisti. Non ho altro di mio padre».
Le indagini sull’omicidio sono state riaperte il 5 febbraio del 2019, dopo le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, e sono ancora in corso. Cosa si aspetta dalla nuova inchiesta?
«Intanto, dopo quattro anni dalla riapertura, vorrei ci fosse una definizione e poi mi aspetto un processo serio. D’altronde il nome di mio padre non è finito a caso nelle sentenze che hanno condannato all’ergastolo per la strage di Bologna prima l’ex Nar Gilberto Cavallini e poi l’avanguardista Paolo Bellini.
I pezzi del puzzle ci sono da sempre. Mio padre, poche ore prima dell’agguato, incontrò nel suo ufficio un uomo che non è mai stato identificato. Durante quel colloquio chiese alla sua segretaria, Franca Mangiavacca, di portare il materiale raccolto su Pietro Musumeci, il pidduista condannato con Gelli per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Bologna. Una telefonata arrivata subito dopo il delitto indicò in Licio Gelli – oggi defunto – il mandante dell’omicidio e in un ex Nar, ancora vivo, il killer. Da sempre, ci sono le dichiarazioni dei primi pentiti dei Nar. E stando alle ultime indagini, perché leggo anch’io i giornali, i preparativi della strage di Bologna, o meglio, i primi soldi, sono partiti nel febbraio del 1979. E mio padre era ancora vivo. Devo pensare che, con le sue fonti, anche nei servizi, non abbia saputo?».
È il generale Pasquale Notarnicola, capo dell’antiterrorismo e del controspionaggio del Sismi dal 1978 al 1983, a dichiarare nella sua ultima intervista rilasciata a chi scrive che uomini dei servizi sarebbero stati in qualche modo coinvolti nell’omicidio di Mino Pecorelli. Gli stessi che furono poi condannati per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Bologna. Nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage alla stazione è emerso che ammonterebbe a circa cinque milioni di dollari il flusso di denaro transitato dal febbraio 1979 e fino ai depistaggi successivi al 2 agosto 1980 da conti riconducibili a Licio Gelli e a Umberto Ortolani fino agli organizzatori e ai Nar.
E c’è un appunto di Mino Pecorelli, che risale al febbraio del 1979, dove si fa riferimento a un versamento di 90 miliardi di vecchie lire, a una banca svizzera e con in parentesi i nomi di Gelli e Ortolani. Perché se fino ad oggi, nel drammatico puzzle dell’omicidio Pecorelli, è mancata la tessera del movente, a distanza di quarant’anni, la strage di Bologna va ad incastrarsi e a chiudere il mosaico, rivelando chiaramente il nome di chi, quella sera del 20 marzo 1979, esplose quattro colpi di pistola contro un uomo disarmato.
Fine prima puntata