05.04.2024
Gli oggetti portano con sé dei significati che viaggiano nel tempo e nello spazio. Ci parlano, ci raccontano delle storie. Ma la loro vita ricomincia sempre di nuovo. Vediamo come.
Prendi un oggetto e prova a guardare alla sua distanza nello spazio-tempo, al suo valore non espresso. Potrebbe essere, più agevolmente, una fede nuziale, il maglione conservato della nonna, una penna, ma anche una cicca di sigaretta, la bottiglia vuota di una bevuta in compagnia al tramonto o che trovi abbandonata per strada. Potresti scegliere qualsiasi cosa, senza soglie minime di dignità. Prova a descriverlo come se lo dovessi fare a chi non conosce significati, forme e materiali. Che colore ha? Che odore ha? Che suono produce? Prova a narrare qualcosa di te, della tua storia con lui. Prova, se non è tuo, a immaginare chi può averlo “vissuto”. Le cose in uso o usate sono oggetti densi, con una preistoria, una storia, che ci conducono a spazi geografici e interiori lontani.
Se parliamo di una fede nuziale, oggetto comune, ma per ognuno diverso, la preistoria è il luogo dove è stato raccolto l’oro e che diviene storia per il tramite di una migrazione. Ci si può intravedere, come in una sfera magica, chi lo ha portato nel luogo della lavorazione, chi gli ha assegnato quella forma, chi lo ha posto in commercio. Chissà in quali condizioni di libertà, di egemonia, di subalternità. Una volta arrivato a noi, quell’oggetto si riempie ancor più di significato. È la sua prima, vera vita. Inizia da qui perché lo abbiamo scelto, perché ci piace, ci serve, ci aiuta a trascorre il tempo, perché lo dobbiamo regalare, perché è un simbolo che parla di noi. In quella rete di significati percepiti o negoziati in cui siamo appesi, si può trattare di un simbolo che evidenzia un nostro “status”, una realizzazione. Oppure di qualcosa “usa e getta” a cui non assegnare un valore nel tempo, ma che sarebbe capace, a nostra insaputa, di “parlare”.
Le cose che conserviamo sono bussole che ci orientano nei diversi momenti della giornata, che non notiamo più, ma che abbiamo già patrimonializzato. Tornando alle radici più antiche dell’umanità, da filosofi esperti in geometrie, potremmo trasferire in un grafico “la vita delle cose”. Avremmo, così, una linea “retta dell’uso” che s’interrompe nel punto denominato “crisi d’uso”, che attraversa la retta discendente di “obsolescenza” per arrivare al punto d’incontro con la “retta della presenza” nel punto della “crisi della presenza”. Da qui può iniziare la trasformazione dell’oggetto o una vita nuova se qualcun’altro lo sceglie come un vestito in un mercatino vintage (in Italia solo l’1% dei tessuti viene riciclato). Guardare alle cose, ascoltando quello che devono dirci, è una forma di patrimonializzazione, collettiva e culturale se sono testimonianze di civiltà, che guarda ai processi, più che ai contesti, che vede gli uomini, più che i manufatti. Ci aiuta a spendere meglio tempo e denaro, a produrre, ripensare, riutilizzare. Le cose sono umane e in momenti in cui venti d’instabilità ci fanno sentire il bisogno di assicurare nel tempo ciò che va salvaguardato, ci fanno comprendere che dipende da noi tutto ciò che rimane.