09.04.2024
Non solo piatti prelibati, ma una vera forma d’arte, veicolo di storia, cultura e identità. La candidatura UNESCO serve a scoprire i segreti del nostro cibo. Il senso stesso di ciò che mangiamo.
Neanche James Bond, l’agente 007 per antonomasia, riuscirebbe a carpire ITA0039, il sistema di certificazione che riconosce il valore fondamentale dell’eccellenza culinaria italiana. Eppure, è la password essenziale della candidatura della Cucina nostrana a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità (presentata dal Ministero della Cultura con Gennaro Sangiuliano, e dal Ministero dell’Agricoltura della Sovranità Alimentare e delle Foreste – MASAF- con Francesco Lollobrigida), secondo l’iter dell’UNESCO (183 membri), sottoposto successivamente al relativo organo di valutazione tecnica e al comitato intergovernativo degli ambasciatori di tutto il mondo, con esito finale nel 2025. Pier Luigi Petrillo, Professore Ordinario di Diritto pubblico comparato e Direttore della Cattedra UNESCO sul patrimonio culturale immateriale presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e di Cultural Heritage alla LUISS Guido Carli, autore del dossier di presentazione, riassume la complessità del tema racchiuso nel titolo: “La cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale”. «E’ l’insieme dei gesti, delle pratiche e dei rituali che rappresentano l’identità, in cui generazioni, etnie, provenienze e culture diverse si riconoscono come un unico popolo». Con il valore aggiunto del «fiume di espressioni locali diverse tra loro per la preparazione d’un piatto, attraverso ricette tradizionali e sue tipicità».
Questo mosaico di pluralità culturale del nostro Paese si compone nella ricerca (e trasformazione) di materie prime locali, nel rispetto dell’ecosistema, della natura e dei ritmi stagionali. «Il concetto di diversità si lega a quello di biodiversità, alla loro ricchezza e varietà, stagionalità e riuso. Nella cucina italiana non si spreca nulla». Più che per soddisfare i bisogni primari, si mangia per appagare un senso inesausto di convivialità, che s’articola in vero rito e, mediante la consapevolezza di quel che il piatto offre, forma un percorso identitario preciso. Così, saperi e competenze si tramandano da una generazione all’altra, raccontando storie di gusto che racchiudono esperienze culinarie uniche, per affondare le radici già nell’epoca dell’antica Roma nell’utilizzo d’ingredienti locali, sottoposti a metodi di cottura innovativa, filtrata poi da culture normanno-arabe-spagnole (vedesi, dominazioni). Una vera e propria piattaforma per la cucina successiva, legata ai territori, a valori autoctoni, alla (psico)geografia, nel rafforzamento di un legame sociale quasi mai disgiunto da una sana competitività (leggi, Italia dei campanili, meglio delle trattorie), sublimata dal piacere dello stare insieme. Con il cibo che esalta la tradizione territoriale legata a qualità e freschezza, dai prodotti ittici delle zone costiere ai piatti di carne, formaggi, legumi e cereali delle aree interne a vocazione agro-pastorale, animando l’estro creativo di chef stellati capaci di reinterpretare piatti classici, e aprendo pure alle proposte dei food blogger.
Punte di diamante di una filiera nazionale del cibo (valore stimato di 580 miliardi di euro, un quarto del Pil), rappresentata da 4 milioni di addetti tra produttori, contadini, artigiani, cuochi, ristoratori, sommelier, nel caleidoscopio di 70.000 imprese alimentari, 740.000 aziende agricole, 330.000 attività ristorative e 230.000 punti vendita al dettaglio. Un comparto intero da difendere per contrastare il fenomeno globale dilagante dell’Italian Sounding e delle sue falsificazioni, distorsioni orrifiche. Nell’insalata caprese, la tradizionale mozzarella di bufala sostituita dal formaggio industriale, grida vendetta. In nome della cucina di qualità: Italia, ribellati!