14 Marzo 2025
/ 14.03.2025

“Una finanza sostenibile con cavilli che strangolano le piccole imprese tradisce la sua missione”

Alessandro Messina

Intervista ad Alessandro Messina, già direttore generale di Banca Etica

Negli ultimi mesi, tra la fine del 2024 e l’inizio dell’anno in corso, abbiamo assistito all’abbandono della lotta al climate change da parte di alcuni dei più grandi gestori patrimoniali al mondo. Big di Wall Street come BlackRock, JP Morgan, Bank of America hanno abbandonato la Net Zero Asset Managers Initiative, l’organizzazione internazionale nata sulla scia della COP 26 di Glasgow, che riunisce i principali protagonisti nel mercato dell’asset management attivi nel contenimento della crisi climatica.

In un contesto internazionale assai critico per gli obiettivi di sviluppo sostenibile redatti dall’Agenda 2030 dell’ONU, con pressioni politiche ma anche giudiziarie che frenano l’avanzata di un percorso green già avviato da molti, anche la finanza alza la bandiera bianca. Cosa ci dobbiamo aspettare e cosa si può fare per invertire la rotta? Ne abbiamo parlato con Alessandro Messina, già direttore generale di Banca Etica, che si occupa da oltre 30 anni di applicare le logiche di sostenibilità ai mercati finanziari, al mondo bancario e del credito.

Diamo un significato preciso al termine finanza sostenibile. Cos’è veramente?

“Comincerei col dire che è un termine che sta progressivamente cambiando significato. Vent’anni fa rappresentava una frontiera culturale, una visione innovativa di chi pensava che la finanza potesse considerare anche gli effetti extra economici delle proprie azioni, come quelli su ambiente e società. Poi, col crescere delle sensibilità dei risparmiatori che si è andata trasformando in domanda al mercato, è diventata prodotto, strategia di marketing, moda. Negli ultimi anni, per via del grande processo di regolamentazione messo in atto dalle istituzioni e dalle autorità di vigilanza finanziaria in tutto il mondo e specialmente in Europa, è diventata adempimento, presidio di rischi, fattore di conformità regolamentare. E il trumpismo la cambierà ancora… 

Il fatto positivo è che cresce una comunità professionale che opera in finanza e che, grazie al cielo, non pensa più che sia giustificato il profitto ad ogni costo e si dota di metodologie e strumenti tecnici per gestire questa complessità. Costringendo le università a riscrivere i manuali di economia”.

Negli ultimi anni l’Europa ha lavorato molto sul quadro regolatorio. Quanto è importante l’impulso normativo per lo sviluppo di investimenti responsabili?

“Ho molti dubbi in proposito. Nel 2018-19 l’Europa ha messo finalmente al centro delle proprie politiche la questione ambientale, con il Green Deal. Ma non ha avuto il coraggio di affrontarlo come si deve, ossia con adeguate politiche industriali: non si cambia modello di sviluppo senza un incisivo intervento di indirizzo dei governi, investimenti diretti, un uso appropriato della leva fiscale. Invece, come già successo per tanti aspetti della politica europea, si è affermato l’inefficace mantra neoliberista secondo il quale i mercati si dovrebbero aggiustare da soli”.

In che modo?

“L’idea è stata: usiamo le banche, i mercati e gli intermediari finanziari come la cinghia di trasmissione delle nostre politiche. Dunque, non chiediamo all’industria di cambiare i comportamenti nocivi, con meccanismi incentivanti o sanzionatori, ma facciamo in modo che lo chiedano le banche, e che siano esse stesse a presidiare i rischi di sostenibilità (i famigerati fattori Esg). Semplificando: non prendiamoci noi politici la parte dei rompiscatole, facciamolo fare ai banchieri, che tanto già sono pagati per essere antipatici… Così è partito questo circo di regolamentazione bizantina, ipertecnica e a tratti paradossale, dove addirittura si legittima una “tassonomia” della sostenibilità. Insomma una deriva tecnocratica, purtroppo non nuova per la nostra Unione, che deresponsabilizza la politica e appesantisce il mondo produttivo e finanziario, soprattutto – come sempre – a danno degli operatori più piccoli. Non mi aspetto che la rivoluzione venga da queste norme. E infatti, mentre il quadro regolatorio raggiungeva il suo acme, lo scorso anno, i fondi Esg avevano la prima flessione della storia…”

Come spiega la recente uscita di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale a livello mondiale, dall’Alleanza Net Zero Asset Managers?

“Difficile stare nella testa di Larry Fink, il Ceo di BlackRock, se non pensando molto male. Solo quattro anni fa si è autoproclamato profeta della rivoluzione ESG, con la famosa lettera ai Ceo di mezzo mondo, senza imbarazzi per le palesi contraddizioni dei suoi investimenti nei tanti settori insostenibili. Ora fa marcia indietro repentinamente. Perché ha capito che questo tema rientra meno nell’agenda del nuovo ordine geopolitico mondiale? Perché i fondi Esg sono nella loro prima fase di aggiustamento, dopo anni di crescita, dunque offrono meno aspettative di rendimento immediato? Quale che sia la risposta, si conclama un uso strumentale dell’idea di finanza sostenibile, di cui non sarà né il primo né l’ultimo interprete”.

Quali sono le sfide maggiori che attendono operatori e istituzioni dei mercati finanziari in un percorso più ‘sustainability oriented’?

“La prima questione è profondamente culturale. Ancora oggi, nonostante l’esplosione di regole e convegnistica, la sostenibilità è spesso una toppa alla strategia aziendale: prima ci preoccupiamo del business, poi ci ricordiamo che ‘ah, bé, sì c’è anche la sostenibilità…’. Il problema riguarda gli azionisti, il top management, gli investitori. Ma non è strano. L’economia e la finanza che si insegnano nelle università hanno ancora una matrice marginalista, da microeconomia classica, in cui le esternalità negative (l’inquinamento, la perdita di posti di lavoro, ecc.) non sono un problema per gli obiettivi del singolo imprenditore. Serve ancora tempo perché i manuali di economia vengano aggiornati con l’internalizzazione dei fattori Esg in tale funzione. E così pure la mente dei docenti, i contenuti dei corsi, i criteri di valutazione degli studenti.

E nell’immediato?

“Più nell’immediato le difficoltà sono prettamente operative: agli intermediari finanziari si chiede di valutare informazioni per le quali non esistono dati, metodi, strumenti adeguati e sufficientemente robusti per consentire valutazioni appropriate. Alle imprese, anche meno grandi, si chiede di attrezzarsi rapidamente per fornire tali informazioni. Sapendo che potranno essere usate contro di loro: perché la banca potrà rifiutare il finanziamento, l’investitore l’ingresso nel capitale sociale… sempre nella supposizione che questo incontro tra domanda e offerta spinga il mercato verso i soggetti più virtuosi e respinga gli altri. Un grosso rischio, che alimenta il fenomeno del greenwashing e favorisce i player più grandi. A prescindere dal loro grado di sostenibilità”.

Come siamo messi sull’educazione finanziaria, soprattutto tra i giovani?

“Ero in Associazione bancaria italiana (Abi) quando il tema dell’educazione finanziaria entrò nell’agenda pubblica. Uscivamo dalla grande crisi del 2008 e i banchieri, a cui erano state attribuite tutte le colpe del mondo (non a torto), cominciarono a cercare altri capri espiatori. Non fu difficile, allora, argomentare che, se era stato “cattivo” il consulente finanziario che aveva venduto i derivati alla pensionata, dopo tutto un po’ era anche colpa della pensionata che non aveva letto proprio tutte le clausole del contratto… esagero, ma non troppo.

Personalmente, già da allora, ho sempre preferito parlare di ‘educazione critica alla finanza’. La finanza è perversa in sé, come diceva Brecht ‘è peggio fondare una banca, che rapinarla’, perché presuppone l’arricchimento di qualcuno sulla base del possesso di denaro a danno di qualcun altro, che ne ha bisogno. C’è un rapporto di potere asimmetrico e iniquo, che va spiegato e compreso, per averci a che fare in modo equilibrato.

Cosa si fa in concreto?

“Oggi si fa tanto, ma a mio parere non sempre nella giusta direzione: si interpreta troppo l’educazione finanziaria come ‘ti insegno a calcolare una percentuale’. Ma questa è aritmetica, non finanza. I giovani di oggi vivono in un mondo più iniquo e incerto di un tempo. Avranno problemi previdenziali, lavorativi, per l’accesso a sanità e casa, che i loro genitori non hanno conosciuto. Sarà cruciale prepararli e metterli in guardia. In questo senso, l’educazione critica alla finanza può diventare un fattore di emancipazione dell’individuo nella società”.

Standard Ethics: qual è la situazione delle banche italiane?

“Si guarda la pagliuzza, per non guardare la trave. Dopo il caso finito sui giornali di una banca non quotata, un’agenzia che vive della vendita di informazioni in materia di sostenibilità decide di effettuare una ricognizione sulla capacità delle banche non quotate di adeguare le proprie prassi ai principi internazionali. Va bene. Scopriremo che ci sono delle falle nella qualità delle comunicazioni pubbliche sulla governance, nelle politiche Esg per il credito e gli investimenti, nella presenza e reperibilità di policy e Codici Etici o di rating indipendenti. Queste falle, ancora una volta, riguarderanno gli operatori più piccoli, che hanno meno risorse da dedicare alla cura di elementi organizzativi interni. Poco importerà se si tratta di banche che finanziano o no l’economia reale, la piccola impresa, la filiera locale. Se vantano tra le loro esposizioni settori nocivi, come le armi o il carbon fossile. O se la forbice delle remunerazioni interne è pari a 10, 25, 50 o 100… Insomma, avremo uno screening sull’abito, che nulla ci dirà della monaca o del monaco che lo indossa”.

Nel lontano 1999 nacque Banca Etica, di cui lei è stato il direttore generale: ritiene sia una scommessa vinta?

“La scommessa dei ‘primi venticinquemila soci’ è stata vinta, senza dubbio. Chi ha contribuito a far nascere la banca, può ritenersi orgoglioso di aver contribuito a uno dei progetti più innovativi, visionari e concreti di inizio millennio. Ma oggi si gioca la scommessa di come stare in questo mercato, a 30 anni dalla nascita della Cooperativa verso la Banca Etica. E questa scommessa riguarda i ‘secondi venticinquemila’ soci (oggi sono 48 mila): che devono prendere in mano il futuro della banca e adeguarlo a un contesto molto cambiato. Esercizio non facile, perché si tratta di trasformare una generazione di follower in una di pionieri, di favorire una ripresa della partecipazione che si è fisiologicamente afflosciata, di gestire una complessità crescente in un mercato bancario sempre più concentrato e competitivo.

Per questo ho aderito alla proposta del Comitato Re:Start Banca Etica 2025, con il quale candidiamo alla prossima Assemblea del 17 maggio una lista di alto profilo per il Consiglio di amministrazione. Che si impegnerà a realizzare un programma ambizioso e articolato, costruito dopo mesi di confronto con le persone e le organizzazioni socie, che si può leggere qui. La nostra idea è che Banca Etica possa continuare a crescere, restando indipendente e con un’identità distintiva. Svolgendo in modo efficace il proprio ruolo di pioniera della finanza etica, di attore di inclusione finanziaria, di laboratorio delle pratiche di economia alternativa”.

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