18.12.2024
A 55 anni dalla morte di Pinelli, precipitato nel dicembre 1969 da una finestra della questura di Milano, il sindaco Beppe Sala annuncia l’Ambrogino d’oro alla memoria per la vedova. Mai una condanna per la sua morte. Così come mai sono stati condannati i responsabili della strage di Piazza Fontana. La storia di un giallo che fa discutere l’Italia.
«Mio padre è la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana. Neanche per lui c’è stata giustizia nonostante la verità sia nota a tutti». Claudia Pinelli è la figlia di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico precipitato la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 dal quarto piano della questura di Milano. «Quando si parla di Pino ci sono sempre due parole, ferroviere e anarchico. Ma mio padre era altro. Era un uomo che credeva nei suoi ideali. Che si batteva per le sue idee. E che amava la sua famiglia».
Cosa accadde prima di quella notte?
«Dopo la bomba di Piazza Fontana cominciò la caccia agli anarchici. Pino fu fermato nel tardo pomeriggio del 12 dicembre, poche ore dopo la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Alcuni agenti dell’Ufficio Politico, guidati dal commissario Luigi Calabresi, lo raggiunsero al Circolo di via Scaldasole, e lo invitarono ad andare in questura dove rimase tre giorni e tre notti, in stato di fermo illegale. Pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre “precipitò” dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. Nessuno avvisò Licia». Licia Rognini, vedova del ferroviere anarchico e madre di Claudia che pure chiama i suoi genitori per nome «perché non appartengono solo a me figlia. Entrambi appartengono alla storia».
Nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, ad interrogare Pinelli, c’erano quattro sottufficiali di polizia e un ufficiale dei carabinieri. La versione fu subito quella del suicidio. Il questore Marcello Guida convocò addirittura una conferenza stampa quella stessa notte e parlò di “coinvolgimento” di Giuseppe Pinelli nella strage di Piazza Fontana e di “forti indizi” a suo carico. Il brigadiere Giuseppe Caracuta, presente al momento del fatto, parlò di “balzo repentino”, Pietro Mucilli di “tuffo oltre la ringhiera”. Il brigadiere Vito Panessa si spinse oltre, affermando che nel tentativo di salvare l’anarchico “in mano gli rimase soltanto una scarpa”.
“Ma ai piedi di Pino le scarpe c’erano. Tutte e due”.
Attraverso vignette e articoli, Calabresi divenne il ‘commissario defenestratore’, “l’assassino” di Pinelli, probabilmente il poliziotto più noto e detestato d’Italia. La campagna, dai giornali, si estese ad artisti e intellettuali che firmarono un manifesto contro il commissario. A pubblicarlo, il 13 giugno 1971, fu il settimanale l’Espresso. 757 i firmatari, da Camilla Cederna a Giorgio Bocca, a Dario Fo.
Dopo una prima archiviazione del caso Pinelli, nel maggio del 1970, per non luogo a procedere per “morte accidentale”, proposta dal pubblico ministero Giovanni Caizzi e accolta dal giudice Antonio Amati, si aprì nell’ottobre del 1970 il processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi contro il quotidiano Lotta Continua, per falso e diffamazione. «Pochi mesi dopo fu decisa anche la riesumazione della salma di Pino, per ulteriori accertamenti, e finalmente, nel 1971, la Procura Generale accolse la denuncia di mia madre, aprendo un’indagine per omicidio».
L’istruttoria condotta dal giudice Gerardo D’Ambrosio si concluse nell’ottobre del 1975 con il proscioglimento di tutti gli indagati. Pinelli non si era suicidato, ma nemmeno era stato assassinato. Morì, sostenne D’Ambrosio, a causa di un “malore attivo”.
«Secondo D’Ambrosio mio padre si sarebbe sentito male e invece di accasciarsi sul pavimento, sarebbe caduto in avanti scavalcando la ringhiera… Credo invece che Pino sia stato duramente picchiato. Che si sia sentito male. E che, credendolo morto, lo abbiano buttato giù dalla finestra».
Anche il processo per diffamazione intentato da Luigi Calabresi si concluse con l’archiviazione per la morte del commissario, ucciso con due colpi di pistola sotto la sua abitazione.
Nel corridoio dell’ufficio politico della Questura di Milano quella notte c’era anche un giovane anarchico, Pasquale Valitutti. Aspettava di essere interrogato. Valitutti ha sempre dichiarato di non aver visto uscire nessuno da quella stanza…
«Infatti, nessuno. Neanche il commissario Luigi Calabresi. Ma importa poco se Calabresi fosse o non fosse nella stanza. Fu lui a convocare Pino in questura. Fu lui a trattenerlo per tre giorni. Era il responsabile di quell’ufficio e degli uomini che interrogarono mio padre».
Il 10 gennaio 2025, Milano conferirà l’Ambrogino d’oro alla memoria a Licia Pinelli, cinque giorni dopo quello che sarebbe stato il suo compleanno e a due mesi dalla morte. Perché Licia Rognini Pinelli è morta il 10 novembre del 2024 e fino all’ultimo giorno dei suoi 96 anni ha lottato per avere giustizia per il marito. «La bandiera rossa e nera con la A di anarchia che ha abbracciato il feretro di mia madre è la stessa che 55 anni fa fu posata sulla bara di mio padre. È stato un modo per ritrovarli uniti un’ultima volta».