Un giro del mondo di 46 giorni per la protezione del Pianeta. Lo hanno effettuato 22 capi di popoli indigeni dei cinque continenti che, dal Cile e alla fine di un lungo pellegrinaggio, hanno lanciato un appello all’azione: “La Terra urla, ma nessuno la ascolta. La giungla urla; non è rispettata dagli esseri umani. Proteggiamo la vita, salviamo la vita qui sul pianeta”, tuona il capo del popolo brasiliano Noke Koi, Yama Nomanawa, 37 anni, durante una cerimonia a Graneros.
Chiede di porre fine alla “distruzione della Terra”, in particolare nel bacino amazzonico, dove una parte significativa della foresta potrebbe raggiungere un “punto di non ritorno” entro il 2050 a causa della siccità, degli incendi e della deforestazione, secondo uno studio pubblicato nel 2024 sulla rivista Nature.
E la situazione potrebbe anche peggiorare perché c’è anche la partnership tra le autorità statunitensi e brasiliane per la lotta agli incendi forestali tra i progetti sospesi a causa del congelamento dei fondi alla cooperazione internazionale dell’Usaid voluto dal presidente Usa Donald Trump. Grazie al programma di prevenzione degli incendi – creato con un accordo nel 2021 – sono stati realizzati in tutto 51 corsi di formazione da parte di istruttori del servizio forestale statunitense (Usfs) in favore di pompieri dell’Istituto brasiliano dell’Ambiente (Ibama) e indigeni. E sono stati formati oltre 3 mila specialisti tra vigili del fuoco e leader comunitari appartenenti alle popolazioni originarie.
La cerimonia ha riunito per la prima volta i capi indigeni dei cinque continenti. Ha concluso un pellegrinaggio di 46 giorni iniziato in Italia, con tappe in India, Australia e Zimbabwe. Durante il pellegrinaggio, i rappresentanti dei popoli Khalkha della Mongolia, Noke Koi del Brasile e Kallawaya della Bolivia, tra gli altri, hanno cantato, ballato e pregato al ritmo dei tamburi intorno a un altare dove era stato acceso un fuoco.
Al termine della cerimonia, i capi delle popolazioni indigene hanno lanciato un appello congiunto a favore di una maggiore protezione della natura. “Facciamo parte della natura. Siamo in un momento cruciale in cui tante cose sono state distrutte, in gran parte dall’uomo”, dice all’AFP Rutendo Ngara, 49 anni, rappresentante del gruppo sudafricano Oba Umbuntu.
Ognuno ha anche fatto da portavoce delle preoccupazioni che agitano la propria regione. “Purtroppo, si sta cercando di estrarre l’uranio in Mongolia. È un elemento importante che dovrebbe rimanere sottoterra”, dice Tsegi Batmunkh commentando una decisione di due mesi fa. Nel gennaio 2025, il gruppo nucleare francese Orano ha firmato un accordo con Ulan Bator per lo sfruttamento di un importante giacimento di uranio nel sud-ovest del Paese.
Secondo la ministra dei Popoli Indigeni del Brasile, Sonia Guajajara, insignita del Premio Campioni della Terra 2024, la più alta onorificenza ambientale conferita dal Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (Unep), “la società può imparare molto dal buon vivere indigeno basato sul rispetto della Madre Terra, sulla prevalenza degli interessi collettivi rispetto a quelli individuali, sulla cura e sulla convivenza comunitaria”.
A febbraio, inoltre, Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela, nella dichiarazione finale del 15mo vertice dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Acto), avevano confermato l’impegno a costruire una più stretta cooperazione regionale a difesa dell’ambiente e delle popolazioni originarie dell’Amazzonia e in favore di uno sviluppo sostenibile della foresta pluviale. Gli otto Paesi avevano sottolineato l’urgenza di rafforzare un programma comune per la conservazione della biodiversità, l’azione per il clima e la protezione dei popoli indigeni e delle comunità locali. Tra gli obiettivi vengono citati – tra gli altri – anche la lotta contro la deforestazione, l’attività mineraria illegale e il traffico illegale di specie selvatiche.