28 Aprile 2025
/ 25.03.2025

Contro gli Pfas appello di 450 scienziati, peccato che sia tardi

Lettera aperta all’Unione europea per chiedere un’azione immediata contro gli “inquinanti eterni”. Formidabili nel difendere le padelle e i giacconi, gli Pfas sono altrettanto abili nell’aggredire il nostro corpo. Li troviamo ovunque: nell’acqua potabile e a tavola. E liberarsene è molto difficile

Per affrontare il rischio Pfas scendono in campo gli scienziati. In oltre 450 hanno firmato una lettera aperta all’Unione Europea per chiedere un’azione immediata. Questa è la notizia, secca e chiara come ogni notizia che si rispetti. Ma spiegare cosa c’è dietro è un po’ più complesso.

Cominciamo dal nome che non si sa neppure come pronunciare, e dunque come scrivere. C’è chi lo legge all’inglese scandendo la prima lettera: Pifas che dunque è preceduto dall’articolo i (i Pifas). E c’è chi lo legge all’italiana, così come si scrive e dice gli Pfas. Questa incertezza nella pronuncia potrà apparire secondaria, ma dà un’idea della scarsa dimestichezza che abbiamo con questa famiglia che comprende migliaia di sostanze chimiche.

Non va meglio se si va a precisare di cosa stiamo parlando dal punto di vista chimico. La sigla sta per Perfluorinated alkylated substances, sostanze alchilate perfluorurate, qualcuno dice sostanze poli- e per-fluoroalchiliche. Uno scioglilingua. Meglio dunque andare sul concreto. Come spesso accade, abbiamo il problema perché i chimici sono stati bravi e hanno trovato sostanze adatte allo scopo industriale per cui erano state pensate, ma con problemi secondari importanti che sono venuti fuori nel tempo. Effetti collaterali che uscivano dal quadro di interesse del committente.

Gli Pfas sono straordinari nel rendere impermeabili le superfici, nel resistere all’acqua e ai grassi. E quindi, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono stati usati per ricoprire padelle e giacconi da montagna, così come per rendere più efficaci le schiume antincendio e i detergenti. Adesso molte padelle espongono fieramente l’etichetta “Non contiene Pfas”. Ma nel frattempo gli Pfas se ne sono andati liberamente in giro in grandi quantità e adesso andarli a riprendere è difficile se non impossibile.

Gli Pfas sono finiti nelle acque (compresa l’acqua potabile) e così, risalendo la catena alimentare, possiamo trovarli in vari alimenti: dal pesce alla frutta, dai frutti di mare alla carne. Il che naturalmente, vista la straordinaria persistenza di queste sostanze (chiamate inquinanti eterni), significa che stanno anche all’interno del nostro corpo.

Dovremmo tenercene alla larga ma non è facile. L’elenco degli oggetti che contengono Pfas, citato dal sito di Greenpeace, è ansiogeno: imballaggi alimentari, padelle antiaderenti, filo interdentale, carta da forno, farmaci, dispositivi medici, cosmetici, capi di abbigliamento, prodotti tessili e di arredamento, capi in pelle, nell’industria galvanica (in particolare cromatura), scioline, cosmetici, gas refrigeranti, nell’industria elettronica e dei semiconduttori, nell’attività estrattiva dei combustibili fossili, in alcune applicazioni dell’industria della gomma e della plastica, nelle cartiere, nei lubrificanti, nei trattamenti anticorrosione, nelle vernici, in prodotti per l’igiene e la pulizia e nelle schiume antincendio.

A questo punto Greenpeace, impietosita dalle condizioni psicologiche del lettore, gli fa la grazia e termina l’elenco aggiungendo solo che “potrebbe essere molto più lungo”. Ma poco sotto dà la mazzata finale spiegando i rischi che si corrono entrando in contatto con gli Pfas: effetti negativi sulla salute, tra cui problemi alla tiroide, diabete, danni al fegato e al sistema immunitario, cancro al rene e ai testicoli e impatti negativi sulla fertilità.

Arrivati a questo punto dell’articolo è bene fare un respiro profondo e mettere freno all’ansia. Non è che essersi cucinati un uovo fritto su una padella sospetta vi porterà necessariamente alla tomba. La maggior parte degli esseri umani, soprattutto se ben alimentati e psicologicamente stabili, riesce a sopravvivere nonostante contatti chimici a rischio, anche perché fanno parte della vita quotidiana. Il pericolo deriva da un’esposizione prolungata.

Un’esposizione che però in alcune aree del Paese comincia a non essere tanto rara perché una fonte inquinante (in genere un’industria) durante il ciclo produttivo ha immesso grandi quantità di Pfas nell’ambiente. La prima regione in cui è scattato l’allarme è stata il Veneto, ma poi gli Pfas sono stati trovati nelle acque potabili di diversi Comuni della Lombardia, in Piemonte e in Toscana.

A fronte di questi rischi, un gruppo di oltre 450 scienziati ha chiesto all’Unione europea di “aggiornare rapidamente i suoi standard sull’inquinamento delle acque per affrontare la crescente minaccia dell’inquinamento chimico, compresi gli Pfas negli ecosistemi di acqua dolce europei”. Gli scienziati esortano la Commissione europea, gli Stati membri dell’Ue e il Parlamento europeo a “dare priorità allo stato delle acque dolci europee nei prossimi negoziati di trilogo e a sostenere gli obiettivi ambientali della direttiva quadro sulle acque”. Gli habitat di acqua dolce e costieri sono hotspot vitali di biodiversità ma l’attività umana, spiegano gli scienziati, “ha gravemente degradato questi ecosistemi, con popolazioni di specie di acqua dolce in calo dell’85% dal 1970 a causa della perdita di habitat e dell’inquinamento”.

Gli scienziati sono in buona compagnia. L’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro ha mostrato che il 78% degli europei è preoccupato per l’inquinamento delle acque e per l’impatto delle sostanze chimiche sulla propria salute e chiede maggiori garanzie. Siamo in ritardo. Ma meglio tardi che mai.

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