9 Marzo 2025
Milano, 11°

Economia

Strozzature globali e crisi climatica, il commercio internazionale rischia il collasso

Foto di Ian Taylor su Unsplash

Il commercio internazionale si basa su una rete di rotte marittime che passano attraverso punti strategici, noti come chokepoints. Questi punti dove ci sono strozzature geografiche –  come Panama e Suez – sono essenziali per il flusso di merci e materie prime in tutto il mondo. Ma il cambiamento climatico sta mettendo a dura prova queste arterie commerciali, strangolate dagli eventi meteorologici estremi che stanno diventando sempre più frequenti e intensi. E le conseguenze sono potenzialmente devastanti per l’economia globale.

Uno studio guidato dal CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) stima che i costi solo per le produzioni agricole potrebbero raggiungere i 34 miliardi di dollari entro il 2030. Nel frattempo in Europa il grande Reno, arteria vitale per l’economia tedesca, è sempre più in difficoltà e mette in crisi industrie e logistica. E come si è visto con gli scontri diplomatici aperti da Donald Trump (ma non solo da lui) il cambiamento climatico sta ridefinendo la geopolitica globale anche attraverso questi chokepoints, alimentando tensioni tra le potenze mondiali.

Cominciamo con lo studio realizzato da un team internazionale con ricercatori CMCC, che ha utilizzato modelli avanzati per analizzare gli effetti macroeconomici sui flussi commerciali, in particolare per le materie prime agricole, che influenzano le operazioni in tre punti marittimi chiave, ovvero il Canale di Panama, il Canale di Suez e gli Stretti in Turchia. La ricerca dimostra che il cambiamento climatico influisce sulle operazioni dei chokepoints con effetti sulla produzione e sui prezzi delle materie prime agricole che a loro volta portano a un calo del PIL globale. Anche se la ricomposizione del commercio genera vincitore e vinti, cioè Paesi che guadagnano dalla nuova situazione, e Paesi che invece perdono risorse, alla fine prevale il segno meno, e le perdite totali potrebbero raggiungere i 34 miliardi di dollari (a prezzi del 2014) nel 2030.

Secondo lo studio anche gli eventi meteorologici in località remote (come il Canale di Panama) potrebbero avere effetti a cascata sull’Unione Europea, con potenziali perdite nel prodotto interno lordo per 2 miliardi di dollari, 1,89 miliardi di euro. Ancor più preoccupante è l’impatto per i Paesi più poveri: il Nordafrica, il Medio Oriente e l’Africa subsahariana sono ancora più vulnerabili, evidenziando ancora una volta l’asimmetria e la distribuzione diseguale degli impatti del cambiamento climatico sull’agricoltura. Che fare? Adottare misure di adattamento per mitigare gli effetti, come investimenti in sistemi di monitoraggio e miglioramenti infrastrutturali nei punti critici del commercio marittimo.

Insomma, aree già alle prese con instabilità politica e povertà rischiano di essere ulteriormente destabilizzate dalla crisi climatica, che a sua volta alimenta una nuova competizione geopolitica per il controllo di risorse e rotte strategiche. Abbiamo già citato il Canale di Panama, con la siccità che ha comportato restrizioni sul traffico navale, il Canale di Suez, un’altra arteria vitale per il commercio globale, che rischia di insabbiarsi ed è già stato bloccato da una grande nave mercantile, e il Bosforo e i Dardanelli, che collegando il Mar Nero al Mediterraneo sono essenziali per il trasporto di petrolio e grano dalla Russia e dall’Ucraina.

Un altro esempio emblematico è l’interesse di Donald Trump per la Groenlandia. Certo, le motivazioni sono economiche o di prestigio e sicurezza nazionale, ma è innegabile che la Groenlandia stia diventando più accessibile per lo sfruttamento di risorse e minerali rari. Anche la Cina sta pianificando una “via della seta polare” nell’Artico, dove lo scioglimento dei ghiacci può creare nuove e veloci rotte commerciali tra l’Asia e l’Europa. E anche la Russia sta militarizzando la regione.

Ma i chokepoints non sono solo sul mare. Il Reno, una delle arterie commerciali più importanti d’Europa, grazie al quale la Germania ha potuto sviluppare e potenziare la sua grande industria e l’attività mineraria, è sempre più in crisi. Il fiume si snoda per quasi 900 chilometri da Basilea attraverso il cuore industriale della Germania, prima di sfociare nel Mare del Nord nel porto olandese di Rotterdam: in media passa qui in media due tonnellate di merci per ogni residente tedesco. Ma dal 2018 dalla fine dell’estate fino all’autunno inoltrato l’acqua si ritira a livelli che ostacolano la navigazione. Colpa degli inverni più caldi e della riduzione delle riserve di neve, stanno rendendo sempre più difficile la navigazione.

Risultato, lo scorso anno la Germania ha registrato il volume più basso di commercio fluviale dal 1990. Le aziende che usavano trasporti e chiatte per movimentare merci e materie prime sono costrette a cercare soluzioni alternative. A Ludwigshafen la BASF ha il più grande stabilimento chimico del mondo, che carica e scarica circa 15 chiatte al giorno e sul fiume sposta il 40% del suo volume di trasporto. Adesso sta reindirizzando la logistica su treni e camion. Stesso problema per il più grande stabilimento siderurgico della Germania, la Thyssenkrupp, posta alla confluenza del Reno e della Ruhr a Duisburg. Richiede 60.000 tonnellate di materie prime al giorno; abbandonare le chiatte richiederebbe 2.000 camion.

Le società che gestiscono la navigazione sul Reno stanno pian piano rinnovando le loro flotte, con chiatte più larghe e con meno pescaggio, più adatte ad acque basse: ma ognuna costa almeno 10 milioni di euro, e la flotta fluviale che oggi va su e giù per il fiume conta 8.900 tra navi e chiatte. Certamente il governo federale e quelli dei Laender possono fare qualcosa, predisporre sistemi di allerta quando scendono le acque e opere di dragaggio, ma anche qui ci vogliono tantissimi soldi. Basti pensare che il dragaggio del tratto più difficile – 50 chilometri tra il palazzo barocco di Biebrich, vicino a Magonza, fino a poco oltre Kaub e le leggendarie scogliere della Lorelei – secondo i calcoli del governo tedesco ci vogliono 180 milioni.

Condividi