19 Aprile 2025
/ 14.04.2025

“Troppo avanzato”. E il Codice dell’ambiente finisce in un cassetto del ministero

Una super Commissione di esperti doveva preparare un vero e proprio Codice dell’ambiente. Lo ha fatto. Ma il suo lavoro è rimasto sepolto in un cassetto. Forse non è in linea con l’idea di ambiente del governo Meloni?

L’Italia è un Paese in cui capitano a volte cose strane. Stavolta ci siamo persi per strada una riforma: per qualche misteriosa ragione non si ha più traccia della riscrittura (assolutamente necessaria) del vecchio Codice Ambientale del 2006. Gli esperti nominati ufficialmente dal governo, divisi in vari sottocomitati, il loro lavoro l’hanno fatto e concluso: ma il documento non è stato pubblicato, la commissione non si è più riunita da mesi, i suoi componenti non ricevono più alcuna informazione, e a quanto pare il nuovo Codice è sparito da qualche parte nei palazzi di governo. Ultima Bozza ha chiesto in proposito chiarimenti e spiegazioni al ministero dell’Ambiente: niente.    

Un apposito decreto ministeriale aveva affidato a una Commissione di esperti la stesura di un vero e proprio Codice dell’ambiente, ovvero una riscrittura, razionalizzazione e adeguamento ai tempi moderni del vigente Testo Unico Ambientale (Tua) contenente tutte le principali normative che in Italia regolano la materia. Il vecchio Testo Unico del 2006 è obsoleto, non è conforme alle tante direttive europee varate nel corso degli anni. E soprattutto non è più compatibile con la riforma costituzionale del 2022 che ha inserito nella Carta oltre alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.

Le regole nuove si sono sovrapposte in modo disorganico a quelle vecchie. La disciplina sulla gestione dei rifiuti, per esempio, ha subito interventi ripetuti, con il recepimento delle direttive del pacchetto europeo sull’economia circolare, ma senza una reale armonizzazione. Lo stesso vale per le norme in materia di bonifiche, che si intrecciano con regolamenti regionali spesso in contrasto tra loro. La giurisprudenza, poi, ha contribuito ad aggiungere ulteriori livelli interpretativi, rendendo ancora più difficile per imprese e amministrazioni navigare nel labirinto normativo.

Per rimediare alla situazione e ricostruire un corpo di norme sensato e coerente il governo ha dato il compito di riscrivere il Tua a una apposita commissione, che avrebbe dovuto produrre la legge delega entro il 30 settembre 2024, e i decreti legislativi delegati entro il 30 giugno 2025. Va detto che non ha aiutato il fatto che sia stato indicato un numero spropositato di commissari – 33 – ed esperti (40). Ed è apparso evidente che la stragrande maggioranza dei commissari provenisse da grandi studi legali e dal mondo dell’università; soltanto in un secondo momento sono stati chiamati a partecipare anche rappresentanti delle tre principali associazioni ambientaliste, Gaetano Benedetto (WWF), Edoardo Croci (Italia Nostra) e Corrado Carrubba (Legambiente). 

Nonostante complicazioni e problemi, tra l’estate e l’autunno del 2024 dopo confronti sia in plenaria che per sottocommissioni, il testo della legge delega è stato “informalmente” presentato ai ministeri dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e delle Riforme Istituzionali. A quanto pare, i ministeri però non avrebbero gradito l’impostazione del loro svolto, ritenendola troppo “avanzata”. Da quel giorno sono state perse completamente le tracce del lavoro svolto per il nuovo Tua. I membri della commissione non sono stati ufficialmente informati sugli sviluppi, né hanno avuto accesso al testo finale, nonostante il loro contributo ai lavori. E neanche le richieste di informazioni su che fine abbia fatto il lavoro svolto formulate da alcuni esperti e commissari hanno mai avuto risposta. Solo un perdurante (e incomprensibile) il silenzio.  

L’impressione generale è che la riforma del Tua sia completamente scomparsa dal radar dell’Esecutivo, e del ministro Gilberto Pichetto Fratin. Magari non viene giudicata importante o prioritaria, magari non piace a questo o quel ministro di un governo che certo non si contraddistingue per l’interesse nei confronti delle questioni ambientali. Certo è che l’immobilismo ha conseguenze: le imprese faticano a districarsi tra normative incerte e interpretazioni divergenti, con il rischio di rallentare investimenti in settori cruciali. L’Italia rischia di accumulare ritardi rispetto agli obiettivi ambientali fissati dall’Unione Europea, con il pericolo di sanzioni e di una perdita di competitività rispetto ad altri Paesi che hanno già aggiornato le proprie normative.

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